Ann Maxwell - I danzatori del fuoco

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I danzatori del fuoco: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo libro della Maxwell ha immediatamente riscosso un enorme successo di pubblico presso gli appassionati di fantascienza.
La giovane autrice americana ha avuto la felice ispirazione di creare due razze assai singolari le cui caratteristiche psico-fisiologiche sono quanto di più originale sia stato dato di leggere sulle pagine di un libro di fantascienza.
Infatti, i componenti la razza dei Senyasi hanno un dominio totale sugli elementi (terra, acqua, fuoco, aria) che deriva loro dalle Linee di Potenza, un intricato arabesco che costella la loro epidermide e che si illumina quando l’individuo che le possiede pone in atto i suoi poteri.
Rheba e Kirtn, i due protagonisti del Ciclo del quale I DANZATORI DEL FUOCO costituisce il primo volume, sono gli unici superstiti di uno spaventoso, rogo che ha completamente distrutto il pianeta loro sede d’origine.
Alla ricerca di altri eventuali superstiti, percorrono la galassia in lungo e in largo e, specificatamente in questo primo episodio delle loro avventure, si trovano a dover evadere dal pianeta Loo dove sono stati ridotti in schiavitù, una schiavitù dalla quale sembra impossibile fuggire…

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D’istinto Rheba corse verso di lei, impietosita. Ma subito lo strato più basso della nebbiolina si rivelò fitto di cespugli alti fino alle sue ginocchia, nei quali finì per inciampare rotolando malamente sul terreno melmoso. Si rialzò con un ansito e riprese a correre verso la bambina.

In quel momento alcune forme scure acquattate al suolo balzarono in piedi, emettendo grida rauche nell’aggredirla, e la ragazza fu scaraventata a terra da uno spintone. Una bocca umana gocciolante di saliva le si spalancò sul collo, e nel sentire i denti affondarle bestialmente nella carne ella gridò e scalciò. Poi fece sprigionare tutta l’energia che. aveva assorbito. Gli assalitori lanciarono guaiti di dolore e indietreggiarono a balzelloni, contorcendosi nella vampata crepitante che li aveva avvolto, ma quello che le si era avvinghiato addosso non ne era stato colpito e seguitò a stringerla. Kirtn sopraggiunse, gli spezzò il collo con un violentissimo manrovescio e lo spostò con un calcio che terminò l’opera. Ringhiando verso il gruppo degli avversari sollevò la ragazza sulle braccia, allontanandosi svelto in una direzione a caso. Nessuno si azzardò a inseguirli.

«La bambina!», gemette Rheba, divincolandosi. «Lasciami … la bambina!»

«Un’esca», disse lui. «Era una trappola Gtai».

La parola ebbe il potere di farla fermare. Ricordava ora alcune delle cose che Jal aveva detto loro, a bordo dell’astronave, e l’uomo aveva menzionato anche certi esseri semintelligenti chiamati Gtai. Si trattava di umanoidi primitivi che cacciavano in gruppo, abili ad attirare la preda verso un’esca ferita della stessa specie. E che all’esca si avvicinasse un salvatore oppure un predatore d’altro genere, ai Gtai non importava molto.

Mentre Kirtn la portava via, la ragazza si massaggiò il punto in cui i canini del Gtai l’avevano morsa. Il gruppo che l’aveva assalita doveva essersi organizzato per tendere agguati ai nuovi arrivati, e c’era mancato poco che non l’avessero uccisa. Si pentì di non aver fatto più attenzione alle parole di Jal.

«Ma la bambina …», mormorò angosciata. «Non possiamo lasciarla in mano a quelle bestie».

E tuttavia non avrebbero potuto fare assolutamente nulla contro una banda intera di predoni, rifletté addolorata. Loro erano stati fortunati a cavarsela, la bambina no. Doveva accettare la bruta realtà di questo fatto come aveva accettato la fine di Deva. Avrebbe dovuto cancellare dalla sua mente quel piccolo volto bruciato, troppo simile a tutti i cari volti del Senyasi e dei Bre’n arsi vivi nell’olocausto. Aveva cacciato nel fondo della sua memoria quel dolore, e avrebbe dovuto ignorare anche questo. Ma una mano gelida le stringeva il cuore in una morsa di pena insopportabile.

«Sto meglio», disse con voce piatta. «Mettimi giù, posso camminare anche da sola».

Kirtn esitò. Aveva già sentito quella nota di vuoto nella voce di lei, anni addietro, e sapeva bene da quale disperazione interna nasceva.

«Sto bene, ti dico», ripeté lei. «Non ho intenzione di fare cose sconsiderate, stai tranquillo».

«Anch’io m’ero dimenticato di quel che ha detto Jal», ammise lui. La lasciò e poi le esaminò la ferita al collo. «Devo succhiartela. Girati un poco».

Con un sospiro lei si riunì i capelli dietro la nuca, annodandoli in un concio improvvisato, e inclinò la testa. Jal aveva parlato di veleno illustrando la poco simpatica natura dei Gtai, ma era meglio non rischiare.

«Fammi un po’ di luce», disse Kirtn.

Rheba creò una piccola sfera d’energia luminosa, fredda e innocua, e la sollevò fra le dita come fosse una rigida bolla di sapone. Poi cercò di non mugolare di dolore mentre il compagno succhiava il sangue e lo sputava via. Una fitta la fece imprecare, sebbene sapesse che Kirtn non si divertiva certo a vederla soffrire.

Dopo aver succhiato un paio di minuti il Bre’n le sentì le pulsazioni al polso e le esaminò le pupille. «Ti senti debole e apatica? Hai difficoltà a muovere le dita?»

«Non avverto nessun sintomo. Solo dolore dove il Gtai e tu mi avete morsa», cercò di scherzare lei.

Kirtn non sorrise. S’era mostrato freddo e sicuro, ma dentro di sé ancora rivedeva la bambina ferita. Adesso era scomparsa nella nebbia, ma egli sapeva che era là da qualche parte, destinata a soffrire ed a morire. Un giorno, promise a sé stesso, non sarebbe stato più uno schiavo chiuso in una cinta di mura. E quel giorno gli ideatori del Recinto avrebbero pagata cara la loro bestialità.

Evitando la zona più fittamente cespugliosa ripresero ad avanzare verso l’interno di quel territorio. Sporadiche grida giungevano fino a loro, fievoli per la distanza, ed a tratti scorsero forme confuse che non riuscirono a identificare bene. Rheba teneva Kirtn per mano, intrecciando le dita alle sue nel modo che le era abituale fin da bambina, quando era appena una cosuccia alta poche spanne che doveva correre per tenere il passo di lui. In silenzio il Bre’n muoveva un dito contro il suo palmo, godendo di quel contatto familiare più di quanto ella non sospettasse, conscio che il Recinto sembrava studiato apposta per far regredire i suoi ospiti a un’emozionalità infantile o primitiva.

La nebbia ogni tanto si diradava, ma non abbastanza. Qua e là fra gli sterpi videro cadaveri di schiavi orribilmente mutilati e scarnificati, come ad opera di piccoli carnivori. Lì dentro i malati, i feriti, i deboli, tutti erano evidentemente destinati a finir preda dei divoratori di carogne. Dopo aver supplicato e bestemmiato in cento lingue diverse, il linguaggio eterno dell’agonia e del dolore li accomunava nella stessa conclusione.

Ma erano i bambini quelli che Kirtn e Rheba guardavano con maggiore sgomento. E sapevano che i loro poveri volti li avrebbero perseguitati negli incubi, sommandosi agli incubi che già si portavano dietro dal giorno della distruzione di Deva.

Di nuovo la foschia s’infittì, e i due attraversarono una zona dove numerose varietà di piante prosperavano sul suolo umido. Continuavano a udire grida umane in distanza, ma nessun essere vivente si fece loro incontro fra la caligine. Non era possibile dire se a tutelarli fosse l’apparenza fisica del Bre’n, oppure il fatto che nessuno aveva molto da guadagnarci ad assalire proprio loro.

Ciò malgrado, la strana sensazione d’essere pedinati cominciò ad innervosirli. Il luogo era decisamente macabro spiacevole come un paesaggio emerso da una tetra preistoria, e il sentiero su cui s’erano incamminati faceva continue svolte a tratti arrampicandosi su piccole alture cespugliose. Sugli sterpi crescevano fiori dal profumo dolce, vividi di colori, che però Rheba badava bene a non toccare: stava imparando che nel Recinto del Loo-chim tutto poteva nascondere un’insidia.

Quando il sentiero si divise, alla base di una collinetta, presero per la diramazione che appariva più battuta, ma d’improvviso numerose forme umane avanzarono a sbarrare loro la strada. I due poterono contare una trentina di individui dei due sessi, appartenenti a varie razze diverse e quasi tutti armati di bastoni. Attesero che qualcuno di loro si decidesse a parlare, ma nessuno lo fece né mostrò aperte intenzioni ostili. Uno degli uomini indicò Rheba, fece un gesto osceno verso i propri genitali e invitò la ragazza ad accostarsi.

Con un’imprecazione Kirtn afferrò la compagna per un polso e uscì subito dal sentiero, quindi la incitò a correre. Tuttavia il gruppo non si mosse e non li infastidì, se non con risate beffarde e frasi offensive. Dopo una cinquantina di metri rallentarono di nuovo al passo, aggirarono un’altura, e senza preavviso si trovarono di fronte quelle che sembravano essere le rovine di una piccola città.

Kirtn fece arrestare la ragazza, insospettito nel notare le bizzarre sfaccettature cristalline di quelle macerie, e si rese conto che non si trattava affatto di edifici diroccati.

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