«Noi chiamiamo noi stessi i Mercanti. In un certo senso non abbiamo un singolo pianeta natale, anche se dev’essere esistita una razza originale che per prima mise a punto la nostra forma di vita. Allo stadio attuale, siamo un amalgama di molte razze che hanno raggiunto un equilibrio tale da sopravvivere.»
Apparve la stazione della Linea Calda. Ruotava lentamente. Ne emerse un faggio di luce rossa che passò vicino a una stella gialla.
«I Mercanti sono un’organizzazione avente lo scopo di fornire alle razze cacciate dai rispettivi pianeti le nozioni necessarie per sopravvivere. Trasmettiamo informazioni, come abbiamo fatto con voi. Attraverso i secoli vi abbiamo insegnato a manipolare la vostra struttura genetica. Per motivi vostri avete deciso di non modificarvi. Avete ignorato la maggior parte delle informazioni che vi abbiamo inviato, e che avevano per lo più a che fare con le alternative a cui vi sareste trovati di fronte alterando il DNA umano. È una situazione insolita; abbiamo incontrato poche razze che esitassero a modificarsi. Per qualche ragione la vostra razza ha assunto un atteggiamento così carico di pregiudizi nei confronti di un cambiamento che non siete nemmeno in grado di comprendere le informazioni che vi abbiamo inviato su voi stessi.
«Non potete più permettervelo. Dovete smettere di definire la vostra specie con qualcosa di cosi arbitrario come un codice genetico e compiere il grande salto verso una consapevolezza razziale capace di tenervi uniti nonostante le differenze fisiche che introdurrete fra voi. E dovete definire la vostra razza meglio di quanto non abbiate fatto finora. Oggi non sapreste neanche dirci cos’è che rende umano un essere.
«Quello che vedete davanti a voi,» William allargò le braccia e si guardò il corpo, «secondo i vostri standard sarebbe considerato un essere umano. Questo corpo è infatti geneticamente umano. Però io sono solo un suo occupante temporaneo, nello stesso modo in cui molti individui fra voi adesso vivono in corpi clonati e vivranno in altri corpi durante la vostra vita.»
L’immagine cambiò di nuovo. Lilo vide il Gran Concorso a King City, sulla Luna, un luogo che aveva visitato molte volte. Le persone camminavano davanti alle macchine da presa pensando ai fatti loro.
«Adesso viene la botta,» sussurrò Javelin. «Tieni stretta la carta di credito e le otturazioni d’oro.» Aveva le narici dilatate e gli occhi lucidi. Fiutava una proposta d’affari, e bastava a renderla felice.
«Noi chiamiamo noi stessi i Mercanti. Sapete cos’è che diamo. Sono secoli che ne ricevete. Nessuno ha mai pensato di chiederci se volessimo qualcosa in cambio. Vogliamo qualcosa, qualcosa di molto semplice e molto difficile da spiegare.
«Vogliamo la vostra cultura.»
Come potrei descrivere i dieci anni trascorsi su quella che un tempo era la costa orientale degli Stati Uniti d’America? Cosa mi rendesse così sicura di essere sul continente americano fu per me a lungo fonte di notevole stupore. Dopo la morte di Makel vagai per diversi giorni in stato confusionale. Credo che mi ci sia voluto quasi un, mese prima di avere il coraggio di pormi le domande che mi avrebbero poi tormentato per dieci anni. Possono essere riassunte dalla frase: cos’era successo?
Un momento stavo cadendo attraverso l’atmosfera di Giove e un momento dopo ero fra le onde dell’Atlantico. E sapevo che era l’Atlantico.
Ma non era esatto. Un evento non aveva fatto seguito all’altro, si erano piuttosto fusi insieme. Ricordo con certezza che ero seduta fra le piante, tremante, prima di essere nell’acqua. Ricordo anche di essere uscita dall’acqua prima di ricordare di esserci entrata.
Tutta l’esperienza aveva un carattere così soggettivo che dubitai fin da principio di riuscire a trovare delle spiegazioni soddisfacenti. Ciò però non mi impedì di pensare. Le conclusioni a cui giunsi furono così vaghe da risultare probabilmente prive di valore. Tuttavia mi soddisfacevano, allo stesso modo che non avevo dubbi su dove fossi.
Ero caduta dentro un Invasore, o dentro un Gioviano. Per motivi suoi, l’Invasore mi aveva spostato da un’altra parte. Forse nei confusi secondi, minuti, ore o secoli durante i quali era avvenuta la transizione, mi era stato detto qualcosa. O forse un livello della mia mente era riuscito a vedere come e dove venivo trasportata.
Perché? Perché un Invasore si era interessato a me tanto da fare quello che aveva fatto? Era stato un caso? Non lo sapevo, ma avevo la tenace sensazione di essere stata spostata nel tempo e nello spazio per qualche motivo che in seguito mi sarebbe stato chiaro. Nel frattempo dovevo affrontare il duro compito di sopravvivere.
Ebbi centinaia di avventure? In un certo senso ogni giorno era un’avventura. Ma scoprii che è molto più piacevole leggere le avventure che viverle. Al mattino non sapevo mai se sarei riuscita a vedere il tramonto.
Eppure, con tutte le difficoltà, con tutti i rischi, la mia è soprattutto una storia di peregrinazioni, di faticose avanzate fra i boschi, le paludi e le spiagge dell’Atlantico.
Mi dirigevo sempre a sud. Non conoscevo la geografia bene quanto avrei potuto, ma sapevo che sarebbe stato più caldo quanto più a sud fossi andata. Dopo il primo inverno ebbi l’impellente desiderio di stare al caldo. Il mio metodo consisteva nello scegliere un luogo dove le foglie cominciavano a cambiare colore. Poi o costruivo una capanna di fango e rami — Tweed, il tuo addestramento è stato utile! — oppure trovavo un gruppo di indigeni e restavo con loro fino allo sciogliersi delle nevi.
Imparai a fare molte cose: come costruire una canoa per attraversare i fiumi, come costruire e usare arco e frecce, come disporre trappole e trovare prede. Nei giorni buoni riuscivo a percorrere tre chilometri.
Le mie dimensioni mi aiutavano molto in tutto ciò che facevo. La gente che incontravo provava uno stupore religioso nel vedermi. Non ho mai trovato nessuno che mi arrivasse anche solo alle spalle.
Agli inizi fu complicato imparare ad andare d’accordo con loro, scoprire un modo per entrare nei loro accampamenti presentandomi come una specie di dea itinerante. Ma sebbene parlassero mille dialetti, erano tutti basati sull’inglese. Riuscivamo a comunicare, quindi. Racconti su Diana, la grande cacciatrice argentea con le gambe di cavallo, si snodarono davanti a me. I villaggi mi venivano incontro per augurarmi il benvenuto e per vedermi mutare per qualche secondo in un’apparizione, allorché mettevo in funzione il campo nullo. Eccitati e spaventati, toccavano il fiore metallico che avevo sopra il petto. Diventai la principessa guerriera delle leggende, la Sposa di Frankenstein dal corpo di metallo, la Diana Cacciatrice.
Ai loro occhi ero inferiore solo a una cosa. Al Delfino. Tutti i luoghi sacri di tutti i villaggi avevano una statua in legno di un grande pesce con le pinne della coda orizzontali e lo sfiatatoio.
Erano alcune settimane che si dirigeva verso nord. Già altre volte, nel suo lungo cammino, era andata a nord, ma era sempre stato per risalire un fiume alla ricerca di un guado. Una volta attraversato il fiume, ricominciava a scendere verso sud.
Apparentemente questa volta sarebbe stato diverso. A ovest non era riuscita a vedere nessuna terra e il colore dell’oceano sembrava diverso, più verde che blu. Il terreno era paludoso e lei compiva la maggior parte del viaggio su una canoa, spingendosi con un lungo bastone. Grossi rettili oziavano nel fango o le nuotavano pigramente accanto, però non aveva paura di loro.
Erano due anni che non vedeva la neve. Gli inverni erano miti, se addirittura si poteva dire che lì ci fosse un inverno. Aveva continuato ad avanzare per forza di abitudine e perché non sapeva decidere cosa fare della propria vita. Gli Invasori non l’avevano chiamata, non c’era stato nessun segno che le avesse rivelato perché era lì. Ma fermarsi avrebbe significato diventare parte di una tribù. Anche come dea, non credeva che sarebbe riuscita a sopportarlo.
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