John Varley - Lo spacciatore

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Per chi viaggia tra le stelle a velocità relativistiche ci sono strani modi per mantenere il contatto con l’umanità.
Vincitore dei premi Hugo, Nebula e Locus per il miglior racconto breve
in 1982.

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John Varley

Lo spacciatore

Le cose cambiano, e Ian Haise se l’aspettava. Tuttavia vi sono certe costanti, imposte dalla funzione e dall’uso. Ian le cercava, e sbagliava di rado.

Il campo giochi non somigliava molto a quelli che aveva frequentato da piccolo. Ma i campi giochi vengono creati per divertire i bambini. Ci sarà sempre qualcosa su cui dondolarsi, qualcosa su cui scivolare, qualcosa su cui arrampicarsi. Lì cerano tutte queste cose, e molto di più. In parte era fittamente alberato. C’era una piccola piscina. Alle strutture stazionarie si aggiungevano abbaglianti statue di luce che apparivano e sparivano. C’erano anche gli animali: rinoceronti pigmei ed eleganti gazzelle che arrivavano al ginocchio. Sembravano innaturalmente docili, e non mostravano paura.

Ma soprattutto, nel campo giochi c’erano i bambini.

A Ian i bambini piacevano.

Sedette su una panchina di legno al limitare degli alberi, nell’ombra, e li guardò. Ce n’erano quelli neri come caramelle di liquirizia animate, e c’erano quelli bianchi come coniglietti, e quelli bruni con i capelli ricci, e altri bruni con gli occhi obliqui e i capelli neri e lisci e alcuni che erano bianchi ma così abbronzati da sembrare più bruni di quelli bruni.

Ian si concentrò sulle bambine. Aveva provato con i maschi, molto tempo prima, ma era stato inutile.

Guardò per lunghi istanti una bambina nera, cercando di indovinarne l’età. Pensò che avesse otto, nove anni. Troppo piccola. Un’altra doveva averne tredici, a giudicare dalla camicetta. Era una possibilità, ma Ian l’avrebbe preferita più giovane. Meno sofisticata, meno sospettosa.

Finalmente trovò una ragazzina che gli piaceva. Era bruna di carnagione, ma con i capelli sorprendentemente biondi. Dieci anni? Forse undici. Comunque era abbastanza giovane.

Si concentrò su di lei e fece la cosa strana che faceva sempre quando aveva scelto quella giusta. Non sapeva bene che cosa fosse, ma di solito funzionava. Di solito bastava guardarla e tenere gli occhi fissi su di lei, dovunque andasse e qualunque cosa facesse, senza lasciarsi distrarre. Infatti, dopo qualche minuto la bambina alzò la testa, si guardò intorno, e i suoi occhi incontrarono quelli di Ian. Lo fissò per un momento, poi riprese a giocare.

Ian si rilassò. Forse ciò che faceva non era niente di speciale. Aveva notato, con le donne adulte, che se una attirava la sua attenzione tanto che incominciava a fissarla, quasi sempre quella alzava gli occhi da ciò che stava facendo e ricambiava lo sguardo. Sembrava che il sistema non fallisse mai. Parlando con altri uomini aveva scoperto che era un’esperienza comune. Sembrava quasi che sentissero il suo sguardo. Le donne gli avevano detto che era assurdo, o che era una semplice reazione a qualcosa visto perifericamente da persone allenate a captare i segnali sessuali. Era soltanto un’osservazione inconscia che penetrava nella coscienza: non era qualcosa di misterioso come l’ESP.

Forse era così. Comunque, Ian era abilissimo in quella specie di contatto oculare. Molte volte aveva notato le bambine massaggiarsi la nuca o curvare le spalle mentre le osservava. Forse avevano sviluppato una sorta di ESP e non lo riconoscevano per ciò che era.

Adesso si limitava a osservarla. Sorrideva, e perciò ogni volta che la bambina alzava la testa per guardarlo (e lo faceva sempre più spesso) vedeva un uomo dall’aria amichevole e dai capelli leggermente grigi, con il naso spezzato e le spalle poderose. Anche le mani erano forti. Le teneva strette sulle ginocchia.

Dopo un po’ la bambina incominciò a muoversi nella sua direzione.

Nessuno, osservandola, avrebbe detto che veniva verso di lui. Probabilmente neppure lei se ne rendeva conto. Lungo il percorso, trovava ragioni per fermarsi a fare una capriola, o saltare sulle stuoie elastiche o rincorrere un branchetto d’oche starnazzanti. Ma veniva verso di lui, e sarebbe finita sulla panchina, al suo fianco.

Ian si guardò intorno. Come prima, c’erano pochi adulti nel campo giochi. Evidentemente le nuove tecniche di condizionamento avevano ridotto il numero dei violenti e degli anormali, al punto che i genitori si sentivano tranquilli e lasciavano che i figli si divertissero liberamente, senza supervisione. Gli adulti presenti si occupavano dei fatti loro. Nessuno l’aveva degnato di una seconda occhiata quando era arrivato.

A Ian andava bene così. Rendeva molto più facile ciò che intendeva fare. Aveva pronta una buona scusa, naturalmente: ma sarebbe stato imbarazzante trovarsi alle prese con le domande che i tutori della legge rivolgono agli uomini soli di mezza età che ronzano intorno ai campi da gioco.

Per un momento si chiese, con sincera preoccupazione, com’era possibile che i genitori di quei bambini potessero sentirsi tanto fiduciosi, anche tenendo conto del condizionamento mentale. Dopotutto, nessuno veniva condizionato se prima non aveva fatto qualcosa. Presumibilmente, ogni giorno spuntavano nuovi maniaci. Ed erano eguali a tutti gli altri fino a quando non davano prova d’essere diversi compiendo un atto demente.

Qualcuno avrebbe dovuto parlare seriamente a quei genitori, pensò.

— Chi sei?

Ian aggrottò la fronte. Non aveva undici anni, sicuramente, ora che la vedeva da vicino. Forse non aveva neppure dieci anni. Forse ne aveva soltanto otto.

Otto anni sarebbero andati bene? Esaminò l’idea con la solita cautela, si guardò di nuovo intorno per scoprire se qualcuno l’osservava incuriosito. Non vide nessuno.

— Mi chiamo Ian. E tu?

No. Non ho chiesto il tuo nome. Chi sei?

— Vuoi dire che cosa faccio?

— Sì.

— Sono uno spacciatore.

La bambina ci pensò sopra e sorrise. Aveva i denti permanenti, affollati in una mascella minuta.

— Vendi le droghe?

Ian rise. — Brava — disse. — Devi leggere molto. — La bambina non disse nulla, ma si vedeva che era lusingata.

— No — disse lui. — Quello è un vecchio tipo di spacciatore. Io sono dell’altro tipo. Ma lo sapevi, vero? — Quando le sorrise lei scoppiò in un risolino e mosse le mani in quei gesti senza scopo che sono tipici delle bambine. Ian pensò che doveva sapere bene d’essere carina, ma non aveva idea del suo erotismo proibito. Era un seme maturo di sessualità pronto ad esplodere. Il suo corpo era un abbozzo ossuto, un’intelaiatura sulla quale costruire una donna.

— Quanti anni hai? — le chiese.

— È un segreto. Cos’hai fatto al naso?

— Me lo sono rotto molto tempo fa. Scommetto che hai dodici anni.

La bambina ridacchiò, poi annuì. Undici, quindi. E appena compiuti.

— Vuoi una caramella? — Ian si frugò nella tasca e tirò fuori un sacchetto di carta a righe bianche e rosa.

Lei scosse la testa con aria solenne. — La mamma mi ha detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti.

— Ma io non sono uno sconosciuto. Sono Ian, lo spacciatore.

La bambina ci pensò sopra. Mentre lei esitava, Ian pescò nel sacchetto ed estrasse una caramella al cioccolato, così grossa e soffice da essere quasi oscena. L’addentò, s’impose di masticare. Odiava i dolciumi.

— E va bene — disse la bambina, tendendo la mano verso il sacchetto. Ian lo tirò indietro, e lei lo guardò con aria d’innocente stupore.

— Mi è venuta in mente una cosa — disse lui. — Non conosco il tuo nome. Quindi siamo davvero sconosciuti.

La bambina stette al gioco, quando vide che gli brillavano maliziosamente gli occhi. Lui si era allenato, e gli riusciva sempre bene.

— Mi chiamo Radiant. Radiant Shiningstar Smith.

— Un nome bellissimo — disse lui, pensando che i nomi erano molto cambiati. — Per una bimba tanto carina. — S’interruppe e inclinò la testa. — No. Non credo. Tu sei Radiant… Starr. Con due r. La capitana Radiant Starr, della Pattuglia Stellare.

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