Clifford Simak - Il pianeta di Shakespeare

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Il pianeta di Shakespeare: краткое содержание, описание и аннотация

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Un’astronave in viaggio ormai da tempo verso mondi abitabili, guidata da un centro di comando che riunisce le menti di tre esseri umani del passato, corrispondenti all’equipaggio conservato in animazione sospesa per tutto il volo siderale. Purtroppo al termine del viaggio, cioè all’arrivo su un pianeta abitabile, l’unico superstite è Carter Horton. Per fortuna ha con sè il robot Nicodemus, che è in grado a seconda dei casi di attingere a numerosi cervelli positronici, riservando qualche sorpresa. Ma su quel pianeta c’è anche qualcun altro…

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Esitando, Elayne si avvicinò al mucchio di legna e sedette accanto a Horton.

«Questa,» disse, «è la situazione più. strana che abbia mai incontrato. Un uomo e il suo robot che parlano la lingua antica. Un carnivoro che la parla quasi altrettanto bene, e un teschio umano inchiodato sopra una porta. Voi due dovete provenire dai pianeti arretrati.»

«No,» disse Horton. «Veniamo direttamente dalla Terra.»

«Ma non è possibile,» disse Elayne. «Ormai nessuno viene più direttamente dalla Terra. E dubito che anche là non parlino più la lingua antica.»

«Ma noi sì. Abbiamo lasciato la Terra nell’anno…»

«Nessuno ha lasciato la Terra da più di un millennio,» disse Elayne. «La Terra, ormai, non ha una base per i lunghi viaggi. Senti, a che velocità andavate?»

«Quasi alla velocità della luce. Con qualche sosta qua e là.»

«E tu? Eri ibernato?»

«Certo. Ero ibernato.»

«Quasi alla velocità della luce,» disse lei. «È impossibile fare un calcolo. So che c’erano calcoli matematici primitivi, ma erano approssimazioni grossolane, e la razza umana non ha viaggiato alla velocità della luce per un periodo abbastanza lungo per determinare esattamente l’effetto della dilatazione del tempo. Furono lanciate solo poche navi interstellari che volavano alla velocità della luce, o un po’ meno, e ne sono ritornate pochissime. E prima che tornassero, erano stati scoperti sistemi migliori per viaggiare; nel frattempo, la Vecchia Terra era precipitata in una situazione economica catastrofica, e c’era la guerra… non un conflitto generale, ma molte piccole guerre. La civiltà terrestre andò virtualmente distrutta. La Vecchia Terra c’è ancora. La popolazione rimasta forse sta risalendo la china. Sembra che nessuno lo sappia, e per la verità non importa a nessuno. Nessuno torna mai alla Vecchia Terra. Mi accorgo che tu non sai niente di tutto questo.»

Horton scosse il capo. «Niente.»

«Quindi eri a bordo di una delle prime navi che volavano alla velocità della luce.»

«Una delle prime,» disse Horton. «Nel 2455. O giù di lì. Forse all’inizio del secolo ventesimosesto. Non lo so, esattamente. Ci ibernarono; poi ci fu un ritardo.»

«Vi misero in aspettativa.»

«Immagino che si possa dire così.»

«Noi non ne siamo assolutamente sicuri,» disse Elayne, «ma pensiamo che sia l’anno 4784. In realtà, non si può esserne certi. La storia si è confusa. La storia umana, cioè. Vi sono molte altre storie, oltre quella terrestre. Vi fu un periodo di confusione, un’epoca della corsa allo spazio. Quando ci fu un sistema ragionevole per andare nello spazio, nessuno di quelli che potevano permettersi di andare decise di restare sulla Terra. Non occorreva un grande acume analitico per capire cosa stava succedendo alla Terra. Nessuno voleva trovarsi nella morsa. Per moltissimi anni non vi furono troppe documentazioni. Quelle che esistevano forse erano errate; altre andarono perdute. Come puoi immaginare, la razza umana attraversò una crisi dopo l’altra. Non solo sulla Terra, ma anche nello spazio. Non tutte le colonie sopravvissero. Alcune ci riuscirono, ma poi per una ragione o per l’altra non poterono stabilire contatti con le altre, e furono considerate perdute. Alcune sono perdute tuttora… perdute o estinte. Gli umani si avventuravano nello spazio in tutte le direzioni… molti non avevano neppure un piano preciso, speravano che con l’andar del tempo avrebbero trovato un pianeta dove stabilirsi. Non si avventuravano soltanto nello spazio, ma anche nel tempo, e nessuno capiva i fattori temporali. Ancora oggi non li comprendiamo. In condizioni simili, era facile guadagnare o perdere un secolo o due, nel conteggio. Quindi non chiedermi di giurarti che anno è. E la storia. È anche peggio. Noi non abbiamo una storia: abbiamo leggende. Una parte delle leggende, probabilmente, è storia, ma non possiamo sapere che cosa sia storico e che cosa non lo è.»

«E sei venuta qui attraverso il tunnel?»

«Sì. Faccio parte d’una squadra che traccia le mappe dei tunnel.»

Horton guardò Nicodemus, che stava accosciato accanto al fuoco e sorvegliava la cottura delle bistecche. «Glielo hai detto?» chiese Horton.

«Non ne ho avuto la possibilità,» disse Nicodemus. «Non me ne ha data l’occasione. Era così emozionata nel sentirmi parlare quella che lei chiama la lingua antica.»

«Dirmi che cosa?» chiese Elayne.

«Il tunnel è chiuso. Non funziona.»

«Ma mi ha portata qui.»

«Ti ha portata qui. Non ti riporterà indietro. È guasto. Funziona in un’unica direzione.»

«Ma è impossibile. C’è il quadro dei comandi.»

«Lo so che c’è il quadro dei comandi,» le disse Nicodemus. «Ci sto lavorando. Cerco di ripararlo.»

«E come te la cavi?»

«Non troppo bene,» disse Nicodemus.

«Siamo prigionieri,» disse Carnivoro, «a meno che quel maledetto tunnel viene riparato.»

«Forse posso aiutarvi,» disse Elayne.

«Se puoi,» disse Carnivoro, «t’imploro di fare del tuo meglio. Avevo la speranza che, se il tunnel non viene riparato, potevo andare con la nave insieme a Horton e al robot, ma ci penso sopra e non mi sembra così. Quel sonno di cui parlate, quell’ibernazione mi spaventa. Non voglio essere congelato.»

«Ce ne siamo preoccupati,» gli disse Horton. «Nicodemus se ne intende, d’ibernazione. Ha un transmog da tecnico specialista. Ma lui sa solo ibernare gli umani. Tu potresti essere diverso, avere una chimica organica differente. E non possiamo accertare quale sia.»

«Dunque è escluso,» disse Carnivoro. «Dunque bisogna riparare il tunnel.»

Horton disse ad Elayne: «Non mi sembri troppo sconvolta.»

«Oh, credo di esserlo,» disse lei. «Ma la mia gente non lotta contro il destino. Accettiamo la vita come viene. Il bene e il male. Sappiamo che c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.»

Carnivoro, che aveva finito di mangiare, si alzò, soffregandosi con le mani il muso insanguinato. «Adesso io vado a caccia,» disse. «Porto a casa carne fresca.»

«Aspetta che abbiamo finito di mangiare,» propose Horton. «Verrò con te.»

«Meglio no,» disse Carnivoro. «Tu fai scappare la selvaggina.»

Si incamminò, e poi si voltò indietro. «Una cosa puoi farla,» disse. «Puoi buttare la carne vecchia nello stagno. Però tappati il naso.»

«Ce la farò,» disse Horton.

«Bene,» disse Carnivoro, e se ne andò, verso est, lungo il sentiero che portava al villaggio abbandonato.

«Dove l’hai trovato?» chiese Elayne. «E che cos’è, esattamente?»

«Ci stava aspettando quando siamo atterrati,» disse Horton. «Non sappiamo cosa sia. Ha detto di essere rimasto intrappolato qui, insieme a Shakespeare…»

«Shakespeare, a giudicare dal teschio, è umano.»

«Sì, ma di lui sappiamo poco più di quel che sappiamo di Carnivoro. Però forse riusciremo a scoprire qualcosa d’altro. Vedi, lui aveva portato con sé un volume delle opere complete di Shakespeare, e lo riempiva di annotazioni, scarabocchiando sui margini, in fondo ai testi, dovunque ci fosse spazio libero.»

«Hai letto un po’ di questi scarabocchi?»

«Un po’. Ma c’è ancora parecchio da leggere.»

«La carne è pronta,» disse Nicodemus. «C’è solo un servizio in argento… un piatto e le posate. Uno solo. Non ti dispiace, Carter, se lo dò alla signora?»

«Figurati,» disse Horton. «Mi arrangerò con le mani.»

«Bene, allora,» disse Nicodemus. «Io vado al tunnel.»

«Appena avrò mangiato,» disse Elayne, «verrò a vedere come te la cavi.»

«Mi farebbe un favore,» disse il robot. «Io non riesco a venirne a capo.»

«È abbastanza semplice,» disse Elayne. «Ci sono due quadri; uno è più piccolo. Il più piccolo controlla lo schermo del quadro più grande, il quadro dei comandi.»

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