Non aveva modo di calcolare per quanto durò. Era inerte in quella stretta, che pareva assorbire non soltanto lui ma anche il suo senso del tempo… come se potesse manipolare il tempo a modo suo e per i suoi fini; e Horton provò la sensazione fuggevole che, se poteva far questo, nulla era in grado di opporsi, perché il tempo era il fattore più elusivo dell’universo.
Poi finì, e Horton si stupì nel trovarsi accovacciato sul pavimento, con le braccia levate per coprirsi la testa. Sentì che Nicodemus lo sollevava, lo rimetteva in piedi e lo sosteneva. Infuriato della propria impotenza, scostò di scatto le mani del robot e si diresse barcollando verso il grande tavolo di pietra, vi si aggrappò disperatamente.
«È stato ancora brutto,» disse Nicodemus.
Horton scrollò il capo, cercando di schiarirsi il cervello. «Brutto,» disse. «Come l’altra volta. E tu?»
«Lo stesso, come prima,» disse Nicodemus. «Un colpo mentale di striscio, tutto lì. Si impone molto più brutalmente ad un cervello biologico.»
Come attraverso una nebbia, Horton sentì Carnivoro declamare «Qualcosa, lassù,» stava dicendo, «sembra si interessi a noi.»
Horton aprì il libro al frontespizio. Accanto a lui la rozza candela sgocciolava e fumava, gettando una luce ondeggiante e incerta. Si piegò per leggere. I caratteri tipografici erano strani, le parole sembravano sbagliate.
«Che cos’è?» chiese Nicodemus.
«Credo sia Shakespeare,» rispose Horton. «Che altro potrebbe essere? Ma l’ortografia è diversa. Abbreviazioni strane. E certe lettere sono sbagliate. Sì, guarda… dovrebbe essere così. Opere complete di William Shakespeare. Io lo leggo così. Sei d’accordo con me?»
«Ma non c’è la data di pubblicazione,» disse Nicodemus, sporgendosi sopra la spalla di Horton.
«È posteriore al nostro tempo, immagino,» disse questi. «La lingua e l’ortografia cambiano, con gli anni. Non c’è la data, ma è stato pubblicato a… riesci a capire questa parola?»
Nicodemus si chinò ancora di più. «Londra. No, non è Londra. Un altro posto. Un posto che non ho mai sentito nominare. Forse non è neppure sulla Terra.»
«Bene, almeno sappiamo che è Shakespeare,» disse Horton. «Ecco da cosa deriva il suo nome. Era uno scherzo.»
Carnivoro ringhiò, dall’altra parte del tavolo. «Lo Shakespeare scherza sempre.»
Horton voltò pagina, e ne trovò una bianca, riempita da una grafia minuta, a matita. Si chinò, cercando di decifrarla. Erano la stessa ortografia strana e la stessa strana sintassi che aveva trovato nel frontespizio. Tortuosamente, lesse le prime righe, traducendole, quasi fossero in una lingua straniera:
Se leggi questo, probabilmente ti sei imbattuto in quel grosso mostro di Carnivoro. In tal caso, non fidarti neppure per un istante di quel miserabile figlio di vacca. So che ha intenzione di uccidermi, ma sarò io a ridere per ultimo. Sarà facile, per chi sa che sta per morire comunque. L’inibitore che avevo portato con me ormai è quasi finito, e quando non ne avrò più, il tumore maligno continuerà a divorarmi il cervello. E sono convinto che, prima dell’inizio dei dolori più atroci, sarebbe una morte più facile lasciare che questo mostro bavoso mi uccida, piuttosto che finire tra le sofferenze…
«Cosa dice?» chiese Nicodemus.
«Non ne sono sicuro,» rispose Horton. «È piuttosto difficile.»
Spinse da parte il volume.
«Lui parlava al libro,» disse Carnivoro. «Con il suo bastoncino magico. Non mi spiega mai cosa diceva. Neanche tu puoi dirmelo?»
Horton scosse il capo.
«Eppure devi essere capace,» insistette Carnivoro. «Sei umano come lui. Uno deve sapere quello che l’altro dice con i segni del bastoncino.»
«C’è il fattore tempo,» disse Horton. «Noi abbiamo viaggiato almeno mille anni, per arrivare qui. Forse molto più di un millennio. E in mille anni, possono esserci molti cambiamenti nei segni tracciati con i bastoncini. Inoltre, il suo modo di tracciare i simboli non è dei migliori. Scrive con mano tremante.»
«Tenterai ancora? Grande curiosità di sapere cosa dice lo Shakespeare, soprattutto cosa dice di me.»
«Continuerò a tentare,» disse Horton.
Tirò di nuovo il volume davanti a sé.
…finire tra le sofferenze. Lui finge una grande amicizia per me, e recita così bene la parte che occorre un considerevole sforzo analitico per discernere il vero atteggiamento. Per arrivare a capirlo, prima bisogna scoprire che cos’è, e acquisire una certa conoscenza della sua cultura e delle sue motivazioni. Solo poco a poco mi sono reso conto che è veramente ciò che sembra, ciò che si vanta di essere… non solo un carnivoro incallito, ma anche un predatore. Per lui, uccidere non è soltanto un modo di vivere: è una passione ed una religione. Non soltanto lui: tutta la sua cultura è basata sull’arte di uccidere. Poco a poco, grazie all’intuizione acquisita vivendo con lui, sono riuscito a ricostruire la storia della sua vita e della sua cultura. Se lo chiedi a lui, immagino che ti risponderà, orgogliosamente, di appartenere a una razza guerriera. Ma questo non dice tutto. Nella sua razza, è un essere eccezionale, forse un eroe leggendario… o almeno in procinto di diventarlo. La sua professione, come l’intendo io (e sono sicuro di non sbagliare) consiste nel viaggiare da un mondo all’altro; e su ciascuno sfida ed uccide gli esemplari delle specie più tremende che vi si sono evolute. Come i leggendari indiani nordamericani della Vecchia Terra, conta un punto simbolico per ogni avversario che uccide e, secondo la mia impressione, ormai è uno dei primi nell’intera storia della sua razza ed aspira a diventare il campione di tutti i tempi, il più grande uccisore di tutti. Non so bene che cosa ne ricaverà, ma posso formulare qualche ipotesi… forse l’immortalità nella memoria razziale, l’apoteosi eterna nel suo pantheon tribale…
«Allora?» chiese Carnivoro.
«Sì?»
«Adesso il libro ti parla. Vedo che muovi il dito, riga per riga.»
«Niente,» disse Horton. «Proprio niente. Quasi tutti incantesimi e preghiere.»
«Lo sapevo,» gracchiò Carnivoro. «Lo sapevo. Lui dice che la mia magia è una maledetta sciocchezza, ma pratica la sua. Non parla di me? Sicuro che non parla di me?»
«Non ancora. Forse un po’ più avanti.»
Ma su questo pianeta abominevole, adesso, è prigioniero come me. Come me, è escluso dagli altri mondi in cui potrebbe cercare e combattere e uccidere, a gloria eterna della sua razza, gli esseri più poderosi che potrebbe scovare. Di conseguenza, sono sicuro di poter captare, nella sua mentalità di grande guerriero, una disperazione crescente, e sono sicuro che verrà il momento in cui, dopo aver perduto ogni speranza di raggiungere altri mondi, farà di me l’ultimo nome nell’elenco delle sue vittorie, anche se, Dio lo sa, uccidermi non gli farebbe un grande onore, perché gli sono irrimediabilmente inferiore. Indirettamente, ho fatto del mio meglio per convincerlo, con sottigliezza insinuante, che sarei un avversario fragile e debole. Nella mia debolezza, avevo pensato, sta la mia sola speranza. Ma adesso mi accorgo di essermi ingannato. Vedo la follia e la disperazione crescere in lui. Se continua così, so che un giorno mi ucciderà. Nel momento in cui la sua follia mi farà apparire come un avversario degno di lui, si avventerà su di me. Non so cosa ci guadagnerà. Sembrerebbe che non ci sia ragione di uccidere, quando gli altri membri della sua razza non possono saperlo. Ma, non so bene da che cosa, ho ricavato l’impressione che anche se è in questa situazione, perduto tra le stelle, l’uccisione verrebbe conosciuta e celebrata dalla sua razza. Per me è incomprensibile, e ho rinunciato a tentare di capire.
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