E poi pensò: “Al diavolo tutto quanto.”
Posò la birra e attraversò il locale, salì la rampa fino al palco dove la Regina di Cuori continuava a fissare i suoi cubi. Quasi freddi, sfolgoravano ancora confusamente di tanto in tanto dall’interno, come stelle in via di estinzione.
Fermo accanto a lei, incerto, disse la prima cosa che gli venne in mente. — Hai già aggiustato la ricevente?
Lei scosse la testa all’improvviso, quasi con rabbia, come se rispondesse a una domanda rimasta inespressa. Forcine a cuore scivolarono via; lei le raccolse. Lui l’aiutò. Le sue dita le sfiorarono una volta la guancia, e il viso di lei seguì la carezza, cercandola. Incrociò lo sguardo di lui, d’un tratto turbato, vulnerabile. Aaron le prese la mano, le aprì le dita, le riempì il palmo di cuori.
— No — disse lei. Inspirò profondamente. — È più complicata di quanto credevo.
— Io ho accesso alle informazioni sulle spaziomobili da pattuglia, ai manuali di manutenzione per veicoli venduti a privati. Le otterresti egualmente dalla banca dati della biblioteca, ma così non dovrai pagare la tariffa di consultazione. Il Mago lo apprezzerà.
Lei sorrise debolmente. Il sorriso non le arrivava agli occhi. — Non voglio… È tardi. Ossia, presto. Sei ancora in servizio.
— Fra 30 minuti ho l’intervallo per la colazione. Aspettami qui.
— Aaron… — Si interruppe, scosse ancora la testa. Ma non sottrasse la mano, non si mosse. Lui infilò la mano nell’unica tasca non strappata, le aprì l’altra mano e le mise sul palmo una rosa, sbiadita fino a diventare di un polveroso color borgogna e tuttavia ancora lievemente profumata. Lei fissò il fiore; Aaron vide che deglutiva.
— Mi è capitata fra le mani dal nulla una notte. L’ho portata per te. — Lei era sempre silenziosa. Lui aggiunse, sentendosi all’improvviso incerto, inutile: — È solo una rosa appassita. Lo so. Non ci sono tariffe da pagare. Per me aveva un significato, tutto qui.
Lei lo guardò; senza parlare, gli disse finalmente qualcosa. Attorno a loro le pareti tenebrose cominciarono a turbinare di luce.
Volarono in alto sulla città, parlando, mentre la luna, enorme e pallido disco rifrangente, li fissava da sopra il mare, e il cielo orientale acquistava lentamente sfumature perlacee.
— I cubi — disse lei. La voce bassa era arrochita dalla mancanza di sonno. — Solo i cubi. Me ne sono innamorata quando avevo 13 anni.
— Sulla luna.
Lei guardò la luna per un istante, perplessa, come se si fosse intromessa inaspettatamente nella parte sbagliata del mattino. — La luna. Sì. Ho fatto girare i nastri musicali di mia madre fino a consumarli. Mi esercitavo in fraseggi e schemi con matite, forchette, coperchi di tegami. Andavo nella serra dove mia madre lavorava e capovolgevo i vasi vuoti e vi battevo sopra. Volevo forza nei cubi. Volevo che sembrassero vivi sotto il mio tocco, volevo che si scaldassero per me, che cominciassero a fumare, a cambiare colore… Ero ossessionata, innamorata. Vivevo in un sogno. Pensavo che se avessi posseduto una batteria di cubi sarei stata felice per tutta la vita. A suonare musica nel mio angolino privato di luna.
— Però l’hai lasciata, la luna — disse piano Aaron.
Lei chinò la testa; Aaron non poteva vedere la maschera d’oro nascosta dai capelli. — Sono morti. I miei genitori. In un incidente, quattro anni dopo. I regolamenti sociali del GLM dicevano che eravamo troppo giovani per stare da sole…
— Eravate?
Alzò la testa; si tirò indietro i capelli con tutt’e due le mani, aggrottando le sopracciglia alla luna. — È così perfetta — disse in tono sognante. — Così pura. Sembra l’occhio di Dio, lassù, senza ombre o ambiguità. Da vicino, le ombre ci sono… Io. E mia sorella. Lei adesso è su Rimrock; ha sposato un geologo. Per cui fummo mandate sulla Terra. Nel Settore Costadoro. Che possiede, come scoprii ben presto, una batteria di cubi in ogni angolo. Era come cadere in un lungo tunnel tenebroso e sbucare in una specie di paradiso malfamato…
— Un bar a ogni angolo — disse Aaron. — E una batteria di cubi ogni due bar.
Lei annuì, ridendo. Bagliori le percorsero i capelli. Aaron distolse gli occhi dalla ragnatela di luci lungo la costa buia, attratto dall’illusione di luce, di calore sul suo viso. Brevi linee si raccolsero, poi svanirono sotto i suoi occhi quando sorrise. Venticinque anni, immaginò, poi glielo chiese.
— Ventotto.
— Mi sembra poco per voltare la schiena alle tournée nel Settore.
Lei alzò le spalle. — Da un lato c’è fama e fortuna. Dall’altro la musica del Mago. — Scrutò dal finestrino la risacca spettrale. Sollevando sorpreso lo sguardo su di lei, Aaron si ritrovò a fissare l’oro sul lobo dell’orecchio e la lunga curva del collo.
— E allora sei venuta sulla Terra.
— Per ricevere un’istruzione. — La ragazza si riaccomodò sul sedile; un angolo della bocca si sollevò. — Secondo i regolamenti del GLM sulla tutela statale. Avevamo il denaro dei nostri genitori, l’assicurazione, l’accredito compensativo. Ed eravamo orfane, in un mondo mai visto prima. Ci diedero un’istruzione. Cominciai a suonare nei bar quando ancora frequentavo la scuola. Ero alta; mi truccavo il viso, uscivo la sera, e mai nessuno scoprì che non ero ancora maggiorenne.
— Ti dipingevi d’oro? Come adesso?
Per qualche motivo il suo viso si irrigidì. L’oro divenne nuovamente una maschera. — No. Questo è successo dopo. La notte in cui incontrai il Mago.
Aaron rimase in silenzio, a bocca aperta, e gli vennero in mente decine di domande. — Perché quella notte?
— Era la prima volta che ascoltavo Bach… Camminavo lungo la strada a mezzanotte, qualcuno aprì una porta e ne sgorgò una musica che non avevo mai udito prima, così la seguii e trovai il Mago. Mi unii al suo complesso e suonai i cubi per due ore. Mi chiese di rimanere, così restai.
— Siete stati amanti? — La domanda sembrò uscire dal nulla, e lo sorprese, come se a parlare fosse stato l’analizzatore. Diventò tutto rosso, poi sorrise imbarazzato alla sua risata. — Scusami. Non sono affari miei.
— No. Penso che avremmo potuto esserlo, ma avevo bisogno di lui per altre cose.
— Quali?
Lei fece un gesto vago, accigliandosi nuovamente; i suoi occhi, posati sulla vasta e tenebrosa distesa d’acqua, riflettevano il mare e sembravano nello stesso tempo familiari e enigmatici. — Lui — disse finalmente — e la sua musica… erano il luogo al quale ero tornata. Quando esci nel mondo, impari a suonare il PRM, vedi un milione di estranei di cui non saprai mai il nome, anche se loro, ognuno di loro, conosce il tuo… ci deve pur essere un luogo sicuro al quale fare ritorno. Ecco perché ho bisogno del Mago. Perché conservi per me quel luogo sicuro, quell’angolino privato di luna, dove nessuno è un estraneo, e la musica non cambia mai.
Aaron rimase in silenzio, pensando al rifugio antiatomico, il luogo sicuro in cui la vita non poteva raggiungerlo. “Cosa ti ha ferito?” pensò poi. Ma ora era lei a interrogarlo.
— Sei stato sempre un poliziòtto?
— Da dieci anni.
— Vivi con qualcuno?
— No.
— Perche no?
Si stavano avvicinando alla costa; Aaron rallentò la velocità dell’elicar e lo inclinò verso terra. Per un momento ebbe sulla lingua una risposta automatica. Poi, sorprendendo se stesso, disse: — Una volta ho amato una donna. È rimasta uccisa, sette anni fa. Da allora ho sempre vissuto da solo.
— Com’è morta? — Lui spense le luci dell’abitacolo mentre il sole sorgeva alle loro spalle. La luce incendiò il mare; il viso di lei era in ombra. La sua voce era molto bassa, quasi cupa. Aaron vide il cerchio di luci rosse che aveva sistemato sopra il rifugio e si diresse in quella direzione.
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