Il dottor Fiori si tirò i capelli con aria assente, rimasticando il linguaggio che lei creava. — Sabbia. Sabbia del Settore Deserto? Lo stai registrando? Audio e video.
— Sì, dottore.
— Diventa sempre più complicato.
— Sì, signore. Che cos’è l’ovale?
— La testa di qualcuno? Un ricordo della strage, forse, distorto in un simbolo innocuo. — Guardò lo schermo mutevole. — Adesso cosa c’è?
— Sembra un muro.
— O una scogliera? Si innalza dalla sabbia.
— Ma è completamente nero.
— Un muro, allora, immagino.
— È troppo irregolare — obiettò l’assistente, guardando affascinata lo schermo, come il dottore e Terra.
— È un muro della stazione militare, distorto nel ricordo. Qualcosa ha bisogno di prendere forma… È la sua memoria che ha bisogno di prendere forma. La verità che la terrorizza. È il tentativo di sottrarsi alla verità, che la rende pazza.
— Ma era già pazza prima di uccidere tutta quella gente, altrimenti perché l’avrebbe fatto? A meno che non fosse sana di mente, e allora merita davvero di essere rinchiusa qui.
— Quindi prima le è successa una cosa ancora più orribile… Terra, mi senti? Qual è la prima cosa che ricordi? Il primissimo ricordo della tua vita. — Lo schermo cambiò immagine. Restarono in silenzio. — Acqua?
— Un oceano?
— Lei è nata lontana dalla Terra — disse il dottor Fiori, perplesso. — Non ci sono oceani, su Marte.
— Non è del colore giusto. Dottore, forse sarebbe bene sottoporla a un altro test sui colori.
— Sst. Terra, ripensaci. Sei nata su una minuscola luna che ruota attorno a un pianeta senza mari. Cosa ricordi?… Cosa succede?
— Scariche elettriche.
— Da dove vengono? Dall’apparecchiatura?
Reina sfiorò i pulsanti. — No, è lei. Una specie di… disturbo cerebrale, credo. — Guardarono lo schermo. — Blu elettrico su sfondo nero. Grazioso…
— Va bene. Proviamo con un’altra domanda. Terra, che cosa ha bisogno di prendere forma? Che cos’è? Puoi mostrarcela?
La voce di lei gli giunse da dietro le spalle, facendolo sobbalzare, perché lui aveva parlato allo schermò. — Io ho bisogno di prendere forma. — La voce era molto debole, distante. — Io ho bisogno.
— Quale forma?
Lei restò in silenzio. Lo schermo diventò buio. Il dottor Fiori si sedette.
— D’accordo — disse piano, pazientemente. — Proviamo qualche altra cosa.
Un’ora dopo camminava su e giù. Terra sedeva contro la parete a bolla, guardandolo con indifferenza da sotto le palpebre socchiuse. L’immagine sullo schermo era rimasta quasi uguale negli ultimi dieci minuti. — Che cos’è? — chiese Fiori. — Non ti ho fatto la domanda giusta? D’accordo. Non importa. La tua mente è la tua stanza segreta, chiusa a chiave; non posso entrarci a forza. Devo convincerla ad aprirsi usando la chiave giusta. Ho un milione di chiavi, un milione di parole, ma una sola è quella giusta… — Si fermò davanti allo schermo, fissò il muro nero, lo sfondo rosso in ombra. Cominciava a svanire. — E adesso? Reina, cosa sta combinando?
L’assistente batté le palpebre. Controllò il monitor. — Si sta addormentando. Era venuto sonno anche a me. Cosa stavate dicendo, dottore?
— Niente — rispose lui, in tono pentito. — Scusami.
Reina aggrottò le sopracciglia. — Siamo andati avanti per 14 ore filate. A questo ritmo, si ammalerà; è già magra come un chiodo. Cominceremo ad avere allucinazioni tutti quanti.
Fiori si lasciò cadere con riluttanza su una sedia. — D’accordo. Chiama le guardie. La rivoglio qui fra nove ore. Di’ a Ng che lo voglio al tuo posto, fra nove ore.
— Certo, dottore. — Spense la Macchina dei Sogni e si stiracchiò.
— Chissà se riusciremo a mettere a punto un sistema per registrare su nastro i suoi sogni… — disse Fiori.
— Verrò di nuovo io — disse improvvisamente Reina. — Non c’è nient’altro da fare, su Averno. Nat e Pietro giocano a carte con le guardie nel refettorio. Preferisco starmene qui a guardare.
Lui sorrise. — D’accordo.
— È interessante. Continuo a chiedermi… qualcosa a proposito dei colori che lei vede.
— Che cosa?
Reina fissò lo schermo vuoto, continuando ad aggrottare le sopracciglia. — Non ci sono scogliere in quel Settore. E perché il cielo è rosso?
Una manciata di gocce viscose multicolori che si allungavano lentamente cadendo. Una linea orizzontale, scura sopra, chiara sotto. Qualcosa che tremolava, sfocato, contro una superficie gialla. Un fulmine o un osso distorto, irrigidito in un rosso nebbioso. Una grotta piena di denti multicolori, una boccata di gemme. L’ovale piegato…
La detenuta sedeva ancora una volta dentro la bolla e creava immagini. Anche Jase era stato attirato dallo spettacolo; appoggiato contro la parete, con le braccia conserte, osservava freddamente lo schermo. Il dottor Fiori, con l’aria un po’ meno esausta, ruotava come una trottola su uno sgabello, controllando Terra e i suoi incomprensibili pensieri.
— Quella — disse infine Jase, parlando della cosa che fluiva e si increspava formando una superficie agitata — è la cosa più bizzarra che abbia mai visto. Dottor Fiori, siete sicuro che la macchina funzioni?
— L’ho controllata — disse il dottor Fiori. Si picchiò con il dito la testa, distrattamente. — I miei stessi pensieri. Variazioni secondarie…
— A Terra dà fastidio se parlo?
— Guardatela. Non sa nemmeno che siete qui. Voi non siete nella visione.
— La visione — ripeté piano Jase. La vita, gli sembrava, era un grappolo di visioni. Le proprie, quelle di qualcun altro, e tutte esigevano attenzione, tutte si collegavano o contrastavano con un altro ostinato miscuglio di aspirazioni ed esperienze. “Io ho la visione di non lavorare qui”, pensò”, “che rimbalza contro la visione di qualcun altro che invece mi vede lavorare qui. La mia visione sgomita la sua, la sua sgomita la mia… Mentre aspettiamo di vedere quale delle due visioni è più forte, il lavoro viene eseguito. Quando la tua visione è così forte che non scorgi più il mondo, quando vedi solo ciò che è dentro la tua testa, allora diventi pazzo. Oppure cambi il mondo”, aggiunse dopo un momento di riflessione.
Esaminò la detenuta, afflosciata su se stessa, troppo persa nella sua stessa mente perfino per battere le palpebre. Non era nemmeno in grado di cambiarsi le calze da sola.
E poi lei gli restituì lo sguardo, guardandolo in faccia con occhi rannuvolati, e lui si sentì venire la pelle d’oca. Distolse lo sguardo e vide sullo schermo un viso d’uomo, con le sopracciglia scure, gli occhi intensi, severo pur essendo paffuto; l’individualità era andata perduta nella trasposizione dagli occhi di Terra alla macchina, ma era ancora il suo viso.
“Al diavolo”, pensò stupito. “Funziona.” — Terra — disse il dottor Fiori gentilmente — puoi parlarci delle immagini che ci hai appena mostrato? Cosa significano?
— Significano… — La voce si affievolì, stancamente. Poi tornò. — Quello che sono.
— Ma che cosa sono?
— Sono quello che esiste.
— Dove?
Lei deglutì. Agitò appena le mani nell’ombra. — Sono i messaggi. Sono le vie d’accesso.
— Vie d’accesso a che cosa?
— Al cambiamento.
— Chi cambierà? Tu?
— Sì. Io.
Un caso disperato, pensò Jase. Ma il dottor Fiori sembrava compiaciuto.
— Quando sono cominciate le immagini?
— Quel giorno — disse Terra.
— Quale giorno? — Si interruppe, poi aggiunse piano: — Quel giorno nel deserto?
Terra strinse i pugni, mosse la testa avanti e indietro. — No. No. No…
— Terra.
— No.
— Terra!
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