— È stata in prigione?
— Per due o tre mesi. È successo tanto tempo fa che non dovrebbero esserci problemi. A meno che non ne crei qualcuno lei stessa. Non le piacciono i poliziotti.
— Penso che tu le piaccia — disse il Mago, con un insolito lampo di genio. — Quello che non le piace è che tu le piaci.
— Ripeti.
— Lascia perdere. Un pensiero brillante ma fuggevole. Pensare alla gente mi confonde i circuiti. Sei mai stato su Averno?
— Solo una volta. Ho fatto delle ricerche nei loro archivi. Non lasciano entrare gente della Terra. È un posto sorprendente. Tranquillo come un obitorio e efficiente come la morte.
— Ho avuto una piacevole conversazione con il direttore di Averno — commentò Sidney. — Abbiamo parlato di filastrocche.
— Klyos? — disse Aaron, stupito. — Filastrocche?
— Lo conosci?
— No. Ma ne dicono tante su di lui, perfino che sia umano.
— È una cosa così strana? — In un carcere grande come quello, con un simile potenziale di disastro, sì. — Scosse la testa. — Filastrocche. Come hai fatto a ottenere che il direttore di Averno ammettesse anche solo di essere nato?
— Non sono arrivato fino a questo punto — disse Sidney. Il Mago voltò la testa verso il palco dei Nova un attimo prima che la cortina di luce lo avvolgesse e poi si risollevasse, segnalando che mancavano due minuti. Nebraska controllò l’orologio.
— L’intervallo è finito — esclamò allegramente. — Si torna alle miniere di sale.
Il Mago posò il bicchiere. — Ti fermi ancora un po’, Aaron?
Aaron scosse la testa e terminò lo scotch. — Stasera no. C’è troppo casino. Ma presto passerò a trovarti sul Pianto volante , a vedere come te la cavi con quella ricevente.
— Grazie. — Cominciò a girarsi, poi si bloccò. — Stai bene?
— Sì — rispose Aaron, e si accorse che il suo viso si irrigidiva. — Grazie. Sono solo stanco.
Guardò il Mago che attraversava il locale, lo perdette fra la folla, poi lo ritrovò quando prese posto sul palco. Ci fu una cascata di viola; i Nova sparirono nella luce, e Aaron trattenne il fiato di fronte all’improvvisa, possente e assurda visione della luce, una mano aliena che li aveva afferrati come per nasconderli in eterno entro mondi segreti e misteriosi, che si sovrapponevano alla Terra.
Si era conficcato le dita nel muscolo del braccio. Lasciò ricadere le mani, meravigliandosi di se stesso. Troppi messaggi inutili nel rifugio antiatomico? Troppo poco sonno, troppi sogni in un letto solitario? Scoprì che Sidney lo guardava, tutto serio. Fece un sorriso obliquo e raccolse una rosa nera.
— Forse una di queste potrebbe servirmi.
— Parla con Quasar — suggerì Sidney.
— No. Preferisco l’anonimato, di questi tempi. — Guardò corrucciato la sala con occhi socchiusi e critici, poi alzò le spalle, sentendo che la noia gli premeva sulle ossa come la forza di gravità. Soffocò uno sbadiglio, desiderando di essere nel rifugio silenzioso a fare altri elenchi, a cercare nuove tracce. — Sono stanco stasera. Lavoro troppo.
— Aaron, se c’è qualcosa che ti preoccupa…
— Sto benissimo, solo… — Si interruppe, stupito del tono di voce che aveva usato per rispondergli. Si scostò dal bar, e dall’amichevole curiosità di Sidney. — Qualche volta sembra peggio. Sono solo stanco, ma grazie. Buonanotte.
Si immerse nel mucchio di facce, profumi, stoffe metalliche, belletti, voci; mormorò qualche saluto, raddrizzò un ubriaco, scansò innamorati e robocamerieri. Raggiunse infine la porta ed era a metà strada nella notte quando si accorse che in mano stringeva qualcosa. Si sentì pungere il pollice. Avvertì il dolore, e insieme colse un leggero, elusivo profumo. Si fermò, battendo le palpebre.
Qualcuno gli aveva dato una rosa vera.
— D’accordo — disse il dottor Fiori, sfregandosi con le dita gli occhi iniettati di sangue. — D’accordo, d’accordo, d’accordo. Forse non ne avremo mai la certezza. Forse non sapremo mai se quello che vediamo è esattamente ciò che lei pensa. Ma dovete ammettere che è difficile dire “manzo arrosto” e pensare contemporaneamente a un elefante.
— E allora perché ci dà in risposta un sole rosso? — chiese Reina.
— Io ho detto “rosso”.
— Perché non un fuoco?
— Perché è pazza.
— E allora come mai… — Reina si interruppe, confusa, restando a bocca aperta. Terra, rannicchiata contro la curvatura della bolla, ascoltava senza interesse le loro parole. Il dottor Fiori sospirò: — Scusami. È una spiegazione stupida. È logico che le sue risposte appaiano un pochino distorte sullo schermo, chissà fino a che punto. Ma io ho detto rosso, e lei ha pensato rosso. La Macchina dei Sogni ha raccolto le sue reazioni cerebrali alla parola “rosso” e le ha registrate. La macchina funziona.
Tutt’e due guardarono la detenuta: sia la giovane donna alla consolle, con la lucida uniforme argentea e le labbra truccate ancora aperte, sia il dottore dall’aspetto arruffato, con i capelli dritti a furia di passarci dentro le dita.
— In lei non riesco a trovare niente di sbagliato — aggiunse il dottor Fiori. — Né lesioni, né squilibri chimici, né escrescenze anomale, né caratteristiche insolite nella comunicazione fra i lobi cerebrali. Dovrebbe essere in perfetta salute. L’unica aberrazione che i test hanno individuato è quella che potremmo definire un “disturbo cerebrale”. Un’eccitazione degli impulsi elettrici senza scopi o risultati apparenti. Non ho mai visto niente del genere… Ma questi disturbi si manifestano a intervalli; fra l’uno e l’altro non c’è motivo per non considerarla cosciente e lucida. E invece lei sembra assuefatta a questi “disturbi cerebrali” e alle immagini che apparentemente si portano dietro. Perché? Forse, vedendo anche noi quelle immagini, potremo conoscerla meglio. — Sorrise a Terra con aria rassicurante, quasi con affetto. E sorprendentemente lei parlò, in tono di ostinata e annoiata sopportazione.
— Nella visione non c’è.
Reina lanciò un’occhiata a uno schermo più piccolo, che mostrava in continuazione mutevoli spaccati a colori vivaci del cervello di Terra. — È presente. Nessuna interferenza.
— Terra — disse il dottor Fiori gentilmente. — Terra Viridian.
— Sì?
— Come ti senti?
— Non sono pazza.
Fiori rimase un attimo in silenzio. — Le tue percezioni della realtà sono distorte. Stiamo cercando di analizzare questo fatto, di aiutarti a vedere più chiaramente. Sai dove ti trovi?
— Non sono qui.
— Sei in un padiglione dell’infermeria di Averno, ormai da cinque giorni. Finora ti ho mostrato delle figure. Adesso è il tuo turno. Ti rivolgerò parecchie domande; voglio che tu mi mostri i tuoi pensieri, i tuoi sogni. Se lo fai, aiuterai te stessa, e forse aiuterai anche altri malati come te. Capisci?
Lei lo fissò con occhi enormi, smarriti. — Vedo — sussurrò.
— Capisci?
— Siete voi a dover capire. La visione è tutto. La visione. La visione è conoscenza. La visione è vita.
— Quale visione?
— Bruchi.
— Cosa?
— Genesi.
— Le tue parole non hanno senso, per me.
— Forma. Prendere forma. Qualcosa ha bisogno di prendere forma.
— Che cosa ha bisogno di prendere forma?
— Una cosa… nella mente.
— Nella tua mente?
— Sì.
— Che cosa?
— Non lo so. C’è solo la visione. L’Anello Scuro non è niente, non esiste. La visione è tutto.
— Allora sai dove ti trovi.
— No. So solo la visione.
La testa della donna crollò stancamente contro la parete della bolla. Un’immagine comparve nell’occhio della Macchina dei Sogni: un bizzarro ovale distorto sopra una sabbia granulosa viola chiaro.
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