Sir Isaac era al micromanipolatore, con i tentacoli prensili sui comandi: sopra il suo capo era stata adattata una specie d’intelaiatura, con otto lenti di visione. Sir Isaac toccò il quadro di comando; la stereocassetta parve incresparsi, e un’immagine vi apparve… l’anello, riprodotto in colori perfetti e in tre dimensioni. Sembrava largo due metri e mezzo almeno. L’ornamento dell’anello era in primo piano, e mostrava la maiuscola smaltata che vi era incisa… una grande «H» circondata da un semplice cerchio di smalto bianco.
L’immagine ondeggiò e cambiò. Ora era visibile solo una porzione dell’iniziale, ma era così ingrandita che lo smalto che copriva l’esigua scanalatura pareva una serie di blocchi di granito. Un cilindro appuntito e quasi indistinto, del quale solo l’estremità era a fuoco, si mosse attraverso l’immagine; un enorme globo oleoso si formò all’estremità, si staccò, e si pose sullo smalto. I «blocchi di granito» cominciarono a dividersi.
Montgomery Phipps salì sulla rampa, vide Don e Isobel, e sedette sul bordo, accanto a loro. Apparentemente, era venuto in amicizia, e il suo atteggiamento era cordiale.
«Questa è una cosa che potrete raccontare ai vostri nipoti,» disse. «Il vecchio Sir Isaac al lavoro. Il più grande microtecnico del sistema solare… è capace d’isolare una singola molecola, di farla alzare in piedi, e credo che possa perfino farla parlare.»
«È una vera sorpresa,» ammise Don. «Non sapevo che sir Isaac fosse un tecnico di laboratorio.»
«È molto di più di questo; è un grande fisico; non aveva capito il significato del nome che lui ha scelto?»
Don si sentì un perfetto stupido. Lui sapeva benissimo che i draghi sceglievano dei nomi vocalizzati, un secondo nome terrestre, ma dava per scontati quei nomi, non si soffermava a pensarci sopra; esattamente come non rifletteva sul suo nome venusiano, esattamente come lo dava per scontato, come esistente, e basta.
«Tutta la sua tribù è portata spiccatamente verso la scienza,» continuò Phipps. «C’è un suo nipote che si fa chiamare ‘Galileo Galilei’; lo ha conosciuto? E c’è anche un ‘Dottor Einstein’, come c’è una ‘Madame Curie’, e c’è uno specialista di chimica che si fa chiamare… solo l’Uovo sa il perché!… «Piccolo Ranuncolo». Ma il vecchio Sir Isaac è il capo, il cervello, il più brillante di tutti… ha fatto un viaggio sulla Terra per collaborare all’elaborazione di una parte del lavoro di ricerca, in questo progetto. Ma questo lo sapeva già, vero?»
Donald ammise di non avere saputo per quale motivo Sir Isaac fosse stato sulla Terra. Lentamente, i vari pezzi di un disegno che lui aveva ritenuto puramente casuale combinavano. Isobel domandò:
«Signor Phipps, se Sir Isaac lavorava su questo progetto sulla Terra, perché non sa cosa contiene l’anello, prima di aprirlo?»
«Be’, lo sa e non lo sa. Lui ha lavorato sulla parte teorica. Ma quello che noi troveremo… a meno che non ci aspetti una tremenda delusione… sarà una serie di particolareggiate istruzioni tecniche, elaborate per realizzare degli strumenti di tipo umano, e delle tecniche nuove. Si tratta di una cosa molto diversa. Una ricerca di questo tipo, oggi, viene compiuta attraverso molti uomini, molti laboratori, e molte diverse fasi; non c’è più spazio per il genio solitario, per lo meno, non in questo campo.»
Don rifletté sulla spiegazione. «Tecnica» e «scienza» erano più o meno collegate, nella sua mente; mancava dell’addestramento che gli avrebbe permesso di apprezzare l’enorme differenza. Cambiò argomento.
«Anche lei è uno scienziato, signor Phipps?»
«Io? Santo cielo, no! Non saprei reggere un microscopio. Il mio campo è lo studio della dinamica della storia. Un tempo, teorica… oggi applicata. Be’, ecco il primo pertugio.» I suoi occhi stavano fissando la stereocassetta; il solvente, versato in quantità che sullo schermo parevano valanghe, ma che in realtà dovevano essere gocce infinitesimali, aveva lavato via lo smalto dalla scanalatura che definiva quella parte della «H»; il fondo della scanalatura era visibile, spoglio, ambrato, e trasparente.
Phipps si alzò in piedi.
«Non riesco a stare seduto… mi innervosisco. Scusatemi, per favore.»
«Ma certo.»
Un drago stava salendo come una piccola montagna sulla rampa. Si fermò davanti a loro, proprio mentre Phipps si stava voltando.
«Come andiamo, signor Phipps? Le dispiace se parcheggio qui?»
«Niente affatto! Conosce questi signori?»
«Ho conosciuto la signora.»
Don accettò la presentazione, fornendo entrambi i suoi nomi, e ottenendo in cambio quello del drago… Pioggia-Che-Rinfresca e Josephus («Mi chiami semplicemente ‘Joe’, però!»). Joe era il primo drago, a parte Sir Isaac, che Don avesse conosciuto in quel luogo, e che fosse fornito di voder , e istruito nell’uso. Don lo osservò con interesse. Una cosa era certa: Joe aveva imparato l’inglese da qualche maestro diverso dallo sconosciuto londinese che aveva insegnato a Sir Isaac… doveva essersi trattato di un texano, di questo Don fu subito certo.
«Sono onorato di trovarmi nella sua casa,» gli disse Don.
Il drago si accovacciò comodamente al suolo, lasciando cadere il suo mento all’altezza delle loro spalle.
«Casa mia? Neanche per sogno! Questi snob non mi vorrebbero tra i piedi, se non ci fosse un lavoro che io so fare meglio di un altro hombre. Sono solo uno che lavora, qui.»
«Oh.» Don avrebbe voluto difendere Sir Isaac dall’accusa di snobismo, ma prendere le parti di qualcuno, tra i draghi, non pareva certamente una cosa saggia. Così, ritornò a fissare la stereocassetta. L’occhio visore aveva inquadrato il circolo di smalto che incorniciava la «H»; sullo schermo apparivano circa quindici o venti gradi del circolo. L’ingrandimento cominciò ad aumentare vertiginosamente, fino a quando un minuscolo settore non riempì l’enorme schermo tridimensionale. Di nuovo, il solvente scivolò sullo smalto, portandolo via.
«Adesso cominciamo ad arrivare da qualche parte, magari!» fu il commento di Joe.
Lo smalto si dissolveva come neve sotto la pioggia di primavera, ma, invece di essere portato via, e di scoprire il fondo nudo della scanalatura, qualcosa di scuro fu rivelato, sotto la vernice… un rotolo di tubi d’acciaio, almeno così sembrava nell’ingranditore, annidato nella scanalatura poco profonda.
C’era un silenzio di morte… poi qualcuno lanciò un grido di esultanza. Don si accorse di avere trattenuto il respiro fino a quel momento.
«Che cos’è?» domandò a Joe.
«Filo metallico. Cosa si aspettava?»
Sir Isaac aumentò l’ingrandimento, e passò a un altro settore. Lentamente, con la prudenza con la quale una madre fa il primo bagno al suo primogenito, usò il solvente per lavar via la crosta dal primo strato di filo. Dopo qualche tempo, una ‘mano’ microscopica penetrò nel campo visivo, cercò intorno, con estrema delicatezza, ed estrasse un’estremità.
Joe si alzò in piedi.
«Devo mettermi al lavoro,» trasmise, attraverso il voder. «Questo è il mio campo.» Scese pesantemente per la rampa. Don notò che il drago si stava facendo crescere una gamba posteriore mediana, e il processo non era ancora ultimato; questo gli dava un’andatura bizzarra, ondeggiante e zoppicante a un tempo.
Lentamente, quasi con amore, il filo venne pulito e dipanato. Più di un’ora dopo le minuscole mani del micromanipolatore tirarono fuori completamente la loro conquista… un metro circa di filo metallico, così sottile, incredibilmente sottile, da riuscire completamente invisibile a occhio nudo, perfino per un drago.
Sir Isaac tolse la testa dall’apparecchio dalle molte lenti.
«È pronto il filo di Malath?» domandò.
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