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Poul Anderson: Il viaggio più lungo

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Poul Anderson Il viaggio più lungo

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Poul Anderson

Il viaggio più lungo

Quando udimmo per la prima volta parlare della Nave Celeste, ci trovavamo su di un’isola il cui nome, se la lingua di Montalir si può contorcere su di un tal barbaro suono, era Yarzik. Questo accadeva quasi un anno dopo che la Cerva d’oro era salpata dalla città di Lavre, e noi pensavamo d’esser giunti a metà del nostro viaggio intorno al mondo. Tanto coperta d’erbe e di conchiglie era la carena della nostra povera caravella, che a mala pena le vele potevano sospingerci attraverso il mare. Quel che restava dell’acqua da bere era cosa verdastra e disgustosa, e la galletta era ormai intaccata dai vermi, e alcuni marinai mostravano già i sintomi dello scorbuto.

— Col favore del caso, o senza — aveva stabilito il capitano Rovic — toccheremo terra in qualche luogo. — Mi ricordo il lampo che saettò nei suoi occhi mentre, passandosi una mano sulla rossa barba, mormorava: — E, inoltre, lungo tempo è passato da quando chiedemmo notizie delle Città Dorate, e forse ora giungeremo a saper qualcosa di codeste terre.

Con la prua sul sinistro pianeta che saliva ogni giorno più alto nel cielo mentre noi viaggiavamo a occidente, attraversammo tali immensità che voci di ribellione tornarono a serpeggiare tra la ciurma. Dentro di me, non potevo non giustificare quegli uomini; lor signori devono immaginarsi che per giorni e giorni e giorni noi non vedemmo altro che acque azzurre, spumeggiar di creste e nubi alte nel cielo tropicale; altro non s’udiva che il vento, il flusso dell’onda, lo scricchiolar dei legni e talvolta, a notte, il terribile fragore scrosciante dei mostri marini che erompevano dal profondo. Queste cose erano già spaventevoli per i semplici marinai, uomini illetterati che ancora pensavano il mondo esser piatto: ma oltre a questo avevamo Tambur sempre alto sopra la prora, e sempre più lo vedevamo salire, così che ognuno poteva comprendere che avremmo dovuto passare sotto a quel mostro incombente… Chi avrebbe potuto reggere a codesto incubo? La ciurma rumoreggiava sul ponte di prora: adirato, un Dio non avrebbe precipitato quel mondo su di noi?

Così una deputazione chiese di conferire col capitano Rovic. Questi uomini rudi e vigorosi erano timorosi e pieni di rispetto mentre chiedevano al capitano di volger la prora al ritorno. Ma i loro compagni che si ammassavano da basso, muscolosi, abbronzati, avevano coltelli e cavicchi a portata di mano. Noi ufficiali sul ponte di comando avevamo spade e pistole, è vero, ma tutti insieme non eravamo che sei, inclusi il giovanetto impaurito che ero io e il vecchio Froad, l’astrologo, il cui mantello e la barba bianca erano imponenti a vedersi ma di poca utilità se vi fosse stato da combattere.

Rovic restò a lungo silenzioso dopo che il portavoce ebbe posto la sua domanda. Ogni brusio si tacque, finché soltanto il vento nel sartiame e l’abbacinante scintillio dell’oceano, confine del mondo, furon le uniche cose esistenti. Magnifico era il nostro signore, che aveva indossato uose scarlatte e scarpe ornate di sonagli, quando aveva saputo che la delegazione stava arrivando, e aveva elmo e corazza risplendenti. Le piume svolazzavano sull’acciaio scintillante e i diamanti degli anelli alle sue dita brillavano con i rubini dell’elsa della sua spada. Ma quando parlò, non lo fece in qualità di cavaliere della corte della Regina, ma con il linguaggio della sua fanciullezza di pescatore in Anday.

— Si vuol tornare indietro, amici, è così? Il vento è con noi, il sole è caldo, ma voi preferite tornarvene indietro attraverso mezzo mondo! Com’è cambiato il sangue dei vostri padri! Rifiutate forse la leggenda che dice che un tempo non ci fu cosa che non si facesse quando l’uomo comandava? E che fu per stupida colpa di uno di Anday, se l’uomo deve oggi tribolare? Perché, lo sapete, non è passato molto tempo da quando egli disse alla scure di tagliargli un albero e disse ai rami di prender da soli la via di casa: ma fu quando pretese anche che lo trasportassero, che Dio si infuriò e gli tolse il potere. Ma diede a tutti gli uomini di Anday la fortuna sul mare, al giuoco e in amore: e cos’altro avete voi da chiedere, amici?

Confuso da questa risposta, il portavoce si torse le mani, arrossì, guardò il tavolato del cassero e borbottò che saremmo tutti periti miseramente… di fame, di sete o d’annegamento… o saremmo stati schiacciati dall’orribile astro che ci sovrastava, o saremmo caduti oltre i confini del mondo. La Cerva d’oro era giunta più lontana d’ogni altro vascello dal tempo della Caduta dell’Uomo e, se fossimo tornati ora, ne avremmo avuto sempiterna gloria.

— Ma si può mangiarla, la gloria, Etien? — domandò Rovic, sempre mite e sorridente. — Abbiamo avuto battaglie e tempeste, certo, e allegre bisbocce: ma, diavolo, non abbiamo ancora veduto una sola Città Dorata, anche se sappiamo bene che si trovano qui da qualche parte, piene di tesori per il primo uomo di fegato che arriverà a metterci sopra le mani! Che cosa ti pesa sullo stomaco, amico? Non è stato un bel viaggio? Cosa direbbero gli stranieri? Come riderebbero gli arroganti cavalieri di Sathayn, come riderebbero i grassi mercanti di Woodland!… e non riderebbero di noi soltanto, ma di tutta Montalir… se torniamo indietro!

Così egli si prese gioco di loro. Solo una volta toccò la sua spada, distrattamente, sguainandola a metà mentre ricordava come fossimo passati attraverso l’uragano al largo di Xingu. Ma gli altri ricordavano come allora si fossero ammutinati, e come quella stessa spada avesse trafitto tre marinai armati che insieme avevano assalito il capitano. Le sue parole dicevano che egli avrebbe dimenticato ogni cosa, se anche loro lo avessero fatto. Le sue colorite promesse di baldorie tra le genti lascive delle tribù che avremmo incontrato, i suoi discorsi sui tesori leggendari, il suo appello al loro orgoglio di marinai e di montaliriani, smorzarono i timori.

E allora, quando infine li vide malleabili, abbandonò i modi da popolano: ritto sul ponte di comando, col cimiero ondeggiante e l’elmo lucente, mentre il vessillo di Montalir sventolava sopra il suo capo, i colori sbiaditi dalla brezza salmastra, parlò cogli accenti d’un cavaliere della Regina.

— Ora sapete che non vi chiederò di tornare indietro finché non avremo solcato il mondo intiero, e non avremo portato a Sua Maestà quel dono che soltanto noi possiamo recarle, e che non è oro né schiavi, né il possesso di quei lontani paesi che la Regina e la molto onorevole Compagnia dei Mercanti desiderano. No, quello che noi le porteremo con le nostre mani, quel giorno in cui ancora una volta poseremo il piede sui lunghi moli di Lavre, sarà la nostra stessa impresa. Avremo compiuto ciò che nessun uomo al mondo ha osato finora intraprendere, e lo avremo fatto per la gloria della Regina Odila.

Stette a lungo immobile, nel silenzio possente dell’oceano. Poi, con voce calma, disse: — Potete andare — e voltò i tacchi, avviandosi verso la sua cabina.

Per alcuni giorni continuammo così, con la ciurma domata ma non ribelle, mentre gli ufficiali facevano del loro meglio per nascondere i dubbi. Io mi trovai molto preso, non tanto con i miei doveri d’uomo di religione, per i quali ero pagato, o con l’esercizio del comando che dovevo apprendere: entrambe le occupazioni essendo di molto ridotte, assistevo Froad, l’astrologo. In quel clima mite, egli poteva continuare il suo lavoro anche a bordo. A lui poco importava che si potesse naufragare, o finire inghiottiti dall’oceano; egli aveva vissuto ormai oltre il tempo comunemente concesso. Ma altra cosa era per lui la conoscenza dei cieli, che poteva ancora far procedere: a notte sul ponte di prora, con quadrante, astrolabio e cannocchiale, sotto l’immenso chiarore delle sfere celesti, egli somigliava a uno di quei santi dalla candida barba che si possono vedere in sulle vetrate dell’Abbazia di Provien.

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