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Poul Anderson: Il viaggio più lungo

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Poul Anderson Il viaggio più lungo

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Attendevo in silenzio, là nella capanna che gli avevano dato, dove una lanterna di steatite gettava su di noi una luce ondeggiante e ombre gigantesche, e qualcosa frusciava sul tetto di paglia. Fuori il terreno umido digradava oltre le capanne su palafitte e gli alberi fronzuti scendevano verso l’insenatura dove le sabbie rilucevano sotto la luce di Tambur. Lontano, potevo udire un rullar di tamburi, una nenia, un trapestìo di danza attorno a un fuoco sacrificale. Le colline di Montalir sembravano invero assai lontane.

Rovic stese i suoi muscoli. Faceva caldo ed egli indossava soltanto un gonnellino da marinaio. Dalla nave si era fatto portare una vera seggiola. — Perché capisci, ragazzo — continuò — in un altro momento questo sarebbe stato il punto in cui i rapporti giustificherebbero una richiesta di oro. Sì, e potremmo anche domandare qualche direttiva sulla navigazione. Ma tutto sommato, sentiremmo la vecchia storia: “Oh, sì, lor signori, certo, esiste in realtà un reame ove le stesse strade sono lastricate di oro… cento miglia verso occidente…” o qualsiasi cosa con cui menarci pel naso e toglierci di torno. Ma durante questa sosta forzata io ho compiuto una sottile indagine presso il signore e i preti idolatri di qui, e ho fatto il tonto sul nostro viaggio, e di dove veniamo, e che cosa sappiamo, e così si sono lasciati sfuggire molte cose che altrimenti non avrebbero rivelato nemmeno sotto la tortura.

— Le Città Dorate? — esclamai.

— Shhh! Non voglio che la ciurma si ecciti e mi sfugga di mano. Non ancora.

Il suo volto bruno dal naso adunco fu percorso da strani pensieri. Disse: — Ho sempre creduto che quelle città fossero una favola per vecchie rincitnillite. — La mia sorpresa dovette riflettersi nel suo sguardo, perché sogghignò e riprese: — Una storia utile. Come una calamita, ci sta portando in giro attorno al mondo. — La sua gaiezza scomparve. Di nuovo prese quell’aria simile allo sguardo di Froad, l’astrologo, quando considerava le stelle. — Naturalmente, anch’io cerco l’oro. Ma se non ne trovassimo affatto in questo viaggio, non m’importerebbe. Potrò sempre catturare qualche nave di Eralia o di Sathayn, una volta tornati nelle nostre acque, e con questo pagare il viaggio. In nome di Dio, Zhean, dicevo il vero quando quel giorno dissi che questo viaggio aveva in sé il suo scopo, se potrò farne dono alla regina Odila, che mi ha dato il bacio della nobiltà.

Si riscosse dalle sue fantasticherie e disse con tono eccitato: — Essendo riuscito a far credere a Guzan che ne sapevo già molto, gli ho strappato la confessione che nell’isola principale di Hisagazi esiste qualcosa cui oso appena pensare. Una nave degli dèi, dice lui, un dio che è disceso dalle stelle fino a questo paese. Ma… egli mi ha condotto a una caverna sacra e mi ha fatto vedere un oggetto di quella nave: era una specie di meccanismo d’orologio, credo. Che cosa, non so, ma è costruito con un metallo lucido come l’argento, che mai ancora ho veduto. Il sacerdote mi sfidò a spezzarlo: il metallo non era pesante, e doveva esser sottile, ma spuntò la mia spada, mandò in pezzi il macigno con cui lo colpii, e nemmeno il diamante del mio anello poté scalfirlo.

Io feci degli scongiuri, sentendomi percorrere la pelle e la schiena da un lungo brivido finché fui tutto un tremore. Poiché i tamburi rullavano nel buio e le acque quiete risplendevano come argento vivo sotto la luce di Tambur. Tambur che ogni meriggio divora il sole.

Quando la Cerva d’oro fu messa in condizione di poter nuovamente riprendere il mare, Rovic non incontrò difficoltà a ottenere il permesso di render visita all’imperatore di Hisagazi nell’isola principale. Avrebbe invero trovato difficile non farlo, poiché ormai le canoe avevano portato la notizia del nostro arrivo da un capo all’altro del reame e tutti i grandi signori desideravano vedere gli stranieri dagli occhi azzurri. Di nuovo in buona salute e lieti di partire, abbandonammo l’abbraccio delle fanciulle indigene e c’imbarcammo. Salpammo l’ancora, issammo le vele fra i canti che facevano volteggiare gli uccelli marini sopra le colline e fummo in mare aperto. Questa volta eravamo scortati, lo stesso duca dell’isola, Guzan, era il nostro pilota. Egli era alto e massiccio, di media età e non si era lasciato deturpare troppo il volto e il corpo dai tatuaggi verdi che sono tanto diffusi tra la sua gente. Molti figli suoi avevano disteso sul ponte le stuoie dove avrebbero dormito e una moltitudine di guerrieri faceva avanzare a colpi di pagaia le canoe tutt’intorno a noi.

Rovic fece chiamare nella sua cabina Etien, il nostromo. — Tu sei un valent’uomo — gli disse — e io voglio che tu mi tenga la ciurma all’erta, colle armi pronte, anche se tutto sembra tranquillo.

— Come, signore! — Il suo volto scuro si corrugò nella collera. — Pensate che gli indigeni progettino un tradimento?

— Chi può dire? — rispose Rovic. — Per adesso, non dire nulla agli uomini, non devono mostrarsi inquieti. Se eccitazione o timore trasparissero, gli indigeni lo sentirebbero e si ecciterebbero a loro volta; quindi questo peggiorerebbe lo stato dei nostri uomini fino al punto in cui solo la Figlia di Dio potrebbe predire il futuro. No, tu controlla soltanto senza farti notare, come sai fare tu, che ognuno abbia con sé le sue armi e che i nostri stiano sempre insieme.

Etien si ricompose, si inchinò e uscì dalla cabina.

Mi feci coraggio e domandai a Rovic che cosa avesse in animo. — Niente, ancora — disse. — Però io stesso fra queste mani ho tenuto un meccanismo che nemmeno il Grande Artefice di Giair ha mai immaginato; e mi si è parlato di una Nave discesa dal cielo, portando un dio o un profeta. Guzan pensa che io sappia più di quanto dia a vedere e spera che noi diventiamo un nuovo elemento perturbatore nella bilancia delle cose, qualcosa che gli permetta di spingere avanti le sue ambizioni. Non è per caso che si è portato dietro tutti quegli uomini armati. Così io… io voglio andare al fondo di questa faccenda.

Rimase seduto al suo tavolo, fissando il raggio di sole che saliva e scendeva sul legno, seguendo il rollìo della nave. Infine riprese: — Le scritture ci dicono che l’uomo viveva oltre le stelle, prima della Caduta. Gli astrologi della passata generazione ci hanno rivelato che i pianeti sono corpi reali, come questo mondo. Un viaggiatore dal Paradiso.

Uscii, tra pensieri che turbinavano.

Facile fu il passaggio tra le molte isole e, dopo diversi giorni, raggiungemmo la più grande, Ulas-Erkila. Essa misura circa cento miglia di lunghezza e quaranta alla massima larghezza e il terreno verdeggiante si inerpica verso un massiccio montuoso centrale dominato da un cono vulcanico. Gli hisagaziani adorano due sorte di dèi, delle acque e del fuoco, e questi ultimi son creduti albergare sul Monte Ulas. Quando sopra le creste di smeraldo vidi alta nel cielo la cima nevosa dalla quale il fumo saliva nell’azzurro, potei capire che cosa sentissero quei pagani. Il gesto più devoto che uno di loro possa fare è gettarsi nell’ardente cratere di Ulas, e molti vecchi guerrieri vi sono condotti acciocché possano farlo. Le donne invece non possono nemmeno avvicinarsi al Pendio.

Nikum, la città del re, è costruita all’imboccatura di una baia, come il villaggio che avevamo già visitato, ma Nikum è ricca, grande più o meno come Roann. Molte case vi sono costruite interamente in legno, senza strami, e vi è anche un tempio in cima alla scogliera, rivolto alla città. Dietro di esso sono frutteti, e poi foreste e monti. Tanto grandi sono gli alberi d’alto fusto, che gli hisagaziani hanno costruito una serie di moli simili a quelli di Lavre, in luogo delle piattaforme e dei pontoni che possono galleggiare più o meno in alto, secondo il flusso della marea, come ci si contenta di fare nella maggior parte dei porti di tutto il mondo. Ci venne offerto l’onore di un ormeggio alla calata centrale, ma Rovic preferì attraccare all’estremità esterna, adducendo a scusa la poca manovrabilità della nostra nave.

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