— Credo di avere una spiegazione. Mi è tornato in mente un antico poema.
— Sentiamo — lo sollecitò Ham. — Mi è sempre piaciuta la poesia.
— Temo che qualche sfumatura vi sfuggirebbe. È una lingua a sedici toni, e l’effetto voluto si ottiene soltanto pronunciando le parole a coppie in otto toni diversi ogni coppia.
Ben tossì per soffocare una risata. — Sicuramente deve trattarsi di qualcosa di sublime, ma temo che ce lo dovrai tradurre.
— Ci vorrebbero anni per recitarlo tutto.
— Faccene almeno un riassunto — propose Michelle. — Muoio dalla voglia di sentirlo.
— Molto tempo fa viveva qui una razza grande e potente, padrona di molti sistemi stellari. Per motivi sconosciuti al poeta, convinta di potere vincere costruendo grandi flotte completamente automatizzate, questa razza combatté contro un’altra, molto più numerosa. Pervenne così a un tale grado di maestria che le flotte, oltre che funzionare senza l’aiuto di esseri viventi, si costruivano e riparavano anche da sole.
— Possibile? — disse incredula la comandante.
— Sì. Tuttavia il loro stratagemma fu inutile. Infatti, questa razza adottò una particolare strategia di guerra che consisteva nell’atterrare su pianeti disabitati e nel localizzare i depositi di minerali che poi le loro macchine raccoglievano. Quindi costruivano fabbriche che producevano navi da guerra e le attrezzature necessarie al loro funzionamento e mantenimento: naturalmente, questi macchinari erano adibiti anche alla costruzione di altre navi. Quando tutto era pronto, le macchine venivano trasportate su un altro mondo, lasciandosi dietro un pianeta trasformato in una gigantesca base militare pronta a entrare in funzione. Il poeta dice che le macchine continuarono a scavare e costruire anche quando la guerra terminò, anche quando le due razze scomparvero. Si racconta che il Centro è pieno di queste reliquie guerresche, ma in tutta la mia lunghissima vita questa è la prima volta che posso constatare come quel poema si basasse su fatti reali.
— Dopo migliaia d’anni, funziona ancora! — esclamò la comandante.
Il centro operativo fu una delusione, a causa della sua esiguità. Si erano fatti l’idea che, per controllare un intero pianeta coperto di spazioporti, nonché le flotte in orbita, ci dovessero essere installazioni imponenti. Invece trovarono una cupoletta la cui circonferenza non superava i trenta metri, e Torwald, che era il più alto del gruppo, poteva vedere al di sopra della sommità.
Posatemi sulla cupola.
K’Stin era l’unico con le braccia abbastanza lunghe, e depose Sfera sulla cima della cupola. Si aspettavano che rotolasse giù, invece vi rimase saldamente fissa, come se fosse stata incollata. Passò molto tempo.
Sono pronto. Riportatemi alla nave.
Istintivamente tutti sussultarono. Sfera aveva parlato così poco negli ultimi mesi che si erano disabituati a sentire di punto in bianco qualche sua comunicazione mentale.
— Forse ci siamo, Tor.
— Lo spero, comandante. Comincio ad avere nostalgia delle comodità del mondo civile.
K’Stin tornò con la sfera e la depose sul tavolo della mensa. Tutti erano in ansiosa attesa perché il loro ritorno sulla Terra dipendeva dalla sfera. Senza il suo aiuto avrebbero vagato alla deriva nello spazio come i relitti in cui si erano imbattuti. Se finalmente Sfera aveva trovato il modo di compiere la sua missione, forse potevano tornarsene a casa con le ricchezze che avevano raccolto.
Credo di avere scoperto lo stratagemma più opportuno per distrarre il Guardiano.
Tutti si lasciarono sfuggire un sospirone di sollievo.
Le navi che si trovano su questo pianeta sono tutte perfettamente funzionanti, e così pure quelle in orbita, e anche altre in orbita intorno a pianeti e satelliti di questo sistema.
— Quante sono? — chiese Torwald.
Sette milioni ottocentoquarantaduemila. La cifra comprende navi da guerra, da carico, portaerei e navi appoggio.
— Sei capace di farle partire tutte? — volle sapere la comandante.
Ho già dato inizio alla sequenza di lancio. Gli strumenti del centro operativo sono stati rimessi a zero. Ho cancellato gli ordini immagazzinati e ho riprogrammato il centro con il mio progetto. Quando le flotte si troveranno nello spazio convertirò i motori al sistema di propulsione che fa funzionare attualmente questa nave. E, infine, raggiungeremo la Stella Nucleo.
Kelly, Torwald, Nancy e Michelle stavano bevendo il caffè nella cupola osservatorio. Omero, appollaiato sull’affusto di un cannone, sorseggiava una miscela di acido prussico e trementina, che lo rendeva piuttosto euforico.
— Questo è davvero divertente! Come un antico poema epico. In tutta la mia lunga vita nessuna razza ha mai tentato un’azione tanto eroica come tuffarsi nella Stella Nucleo con quasi otto milioni di navi, per misurarsi col Guardiano.
Gli altri non sembravano altrettanto entusiasti. Fu Michelle a esprimere l’opinione comune: — A quanto ne so, mai nessuno si è tuffato in una qualsiasi stella, anche perché non sarebbe sopravvissuto per raccontarlo.
— Speriamo che Sfera possa sopperire a questo inconveniente — disse Omero.
— Già, speriamo — ribatté Torwald. — Ma per mio conto ho paura che quel pallone non sia in grado d’impedirci d’andare arrosto.
— A me pare che possieda delle straordinarie facoltà — asserì Omero facendo vibrare le antenne.
— Quasi otto milioni! — mormorò Kelly. — Non riesco neanche a immaginare una flotta così enorme. Quante navi credi che l’umanità sia in grado di lanciare contemporaneamente nello spazio? — chiese a Michelle.
— Una volta ho visto una formazione che ne contava quattromila. Fu prima dell’invasione di Li Po. Naturalmente ne tornarono solo poche.
— E questa non è che una delle basi — osservò Nancy. — Credi che l’umanità arriverà mai a diventare così potente, Tor?
— Può darsi. Siamo riusciti a cavarcela negli ultimi due secoli senza autodistruggerci, per quanto abbiamo fatto l’impossibile per riuscirci. Niente ci impedisce di arrivare a tanto, purché se ne abbiano il tempo e la voglia. Però io spero che l’umanità si dedichi a qualcosa di meno inutile.
— Una tale quantità di navi non è assolutamente necessaria — disse Omero — anche perché non serve proprio a niente.
— Be’, adesso qualcosa da fare l’hanno trovato — ribatté Torwald.
Le stelle, che finora erano sembrate immobili sopra di loro, cominciarono a spostarsi. Nancy fu la prima ad accorgersene. — La comandante sta facendo ruotare la nave.
Spuntò all’orizzonte il bordo del pianeta senza nome e a poco a poco tutta la sua massa si librò su di loro, malefico globo circondato dalla luminosa distesa stellare del Centro. Anche gli altri membri dell’equipaggio salirono nell’osservatorio. Per ultima arrivò la comandante. — Stiamo per assistere a uno spettacolo unico e indimenticabile. Non staccate gli occhi dal pianeta.
Per un po’ non accadde alcunché. Poi, un puntino bianco e brillante spiccò sullo sfondo giallo. Immediatamente spuntarono dozzine di altri puntini, poi centinaia, poi migliaia e continuavano ad aumentare, finché tutto l’emisfero non fu illuminato, coprendo la superficie del pianeta con una rete di diamanti spettacolosa come lo sfondo stellato.
— Tre milioni di navi da questo pianeta. Un milione e mezzo per emisfero, e sono decollate tutte insieme. — Sopraffatta dalla meraviglia, la comandante non disse altro.
— Un decollo così massiccio altererà per sempre l’orbita di questo pianeta — osservò Bert.
Via via che i puntini si trasformavano in lunghe code luminose, il pianeta diventava sempre più misero. Faceva quasi pena a guardarlo.
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