Markham sorrise. «Ho già sentito parlare dei Fuggiaschi. Anzi, ne ho incontrato uno.»
Paul Malloris si fece attento.
«Chi?»
«Forse un giorno ve lo dirò... ma non adesso. A proposito, quanti saranno?»
«Nessuno lo sa, solo lo Psicoprop. A occhio e croce, più di cinquecento. Certo non raggiungono il migliaio.»
«Immagino che abbiano una specie di organizzazione.»
«Infatti. Circa il settanta per cento di loro si è votato all’ideale di una società più libera e responsabile.»
«Ma non possono far molto contro circa centomila androidi e trentamila esseri umani assolutamente passivi, vero?»
Paul Malloris sorrise. «Vedo che avete già considerato il problema... Ma Orazio tenne il ponte, Leonida tenne il passo... e Davide abbatté Golia.»
«Le analogie non sono molto appropriate.»
«Sì che lo sono, psicologicamente... A proposito, sono uno storico psicologo, quando non ricopro il ruolo pubblico di poeta apocalittico.»
«Dunque gli androidi non sono riusciti a impedirvi di pensare?»
«No, gli androidi non mi hanno impedito di pensare» disse Paul. «Mia madre morì quando nacqui, e mio padre quando avevo appena tre anni. Sono stato allevato da androidi: imboccato, vestito, educato da androidi. Avrei dovuto diventare un cittadino perfetto. E invece no.»
«Perché mai?»
«Gli androidi possono allevare un bambino, ma non possono amarlo. Così dapprima provai un grande risentimento, che a poco a poco sviluppò il mio senso critico. Cominciai a farmi domande sul mondo, invece di accettarlo com’era.»
Markham guardò Shawna. «E voi?»
Lei sorrise e posò una mano sulla spalla di Paul. «Mi ha corrotta. Ero vagamente insoddisfatta di tutto, ma non osavo ammetterlo. Pensavo che in me ci fosse qualcosa che non andava. Paul mi convinse che non era così.»
Markham scoppiò improvvisamente a ridere. «Cinquecento Fuggiaschi e una coppia di idealisti contro il resto del mondo.»
«Ce ne sono altri come noi» disse Paul. «Molti altri... forse un migliaio e forse più... Aspettane solo una guida, o un capo.»
«In teoria, io punto sugli androidi e sul loro sistema.»
«Ma in pratica?»
«In pratica» fece, cauto, Markham, «credo che un capo dovreste trovarlo.»
Paul sostenne il suo sguardo.
«Riteniamo di averlo già trovato.»
«Chi è?»
«Voi.»
Cadde un pesante silenzio. Shawna non osava guardare Markham.
«Io credo che siate pazzo» disse alla fine lui. «Se sono l’individuo più adatto che vi sia venuto in mente, ammesso che volessi accettare, cosa che non farò, allora il Ciclo aiuti l’umanità. Io non ho ancora nemmeno mezza idea. Penso diversamente da voi perché sono di un’altra epoca.»
«Proprio per questo, siete adatto» disse Paul. «Voi appartenete a un’epoca in cui gli uomini contavano sulle proprie forze.»
«E in che bel pasticcio si sono cacciati!» commentò amaro Markham.
«Questo non c’entra. Il vostro valore sta nel fatto di essere un simbolo, un archetipo. Siete il Sopravvissuto, un uomo che crede nella cosiddetta vita primitiva di famiglia, nel lavoro di famiglia, nel lavoro creativo e nella responsabilità umana.»
«Sciocchezze!» disse Markham con violenza. «Credo nell’essere felice. Quelle erano le cose che potevano rendermi felice. Se potrò esserlo ugualmente sotto le condizioni odierne, allora mi adatterò... Non mi sono lasciato intrappolare nella cella frigorifera solo per organizzare la vostra miserabile rivoluzione.»
«E se non riusciste a essere felice?»
«Allora ci ripenserò.»
Paul Malloris parve rassicurato.
«È quello che volevamo sapere. Riflettete pure con calma. Assaggiate tutto ciò che la Repubblica ha da offrirvi, John. Alla fine, scoprirete che la cosa non va. Nel frattempo, non potete fare nessun danno perché l’Oblivina cancellerà completamente questa conversazione. L’abbiamo usata solo per poter saggiare senza comprometterci le vostre reazioni. Personalmente ritengo che...»
Paul s’interruppe. Markham si era portato una mano alla fronte. «La stanza sta diventando buia» disse, fissando Paul.
«Non vi preoccupate. L’Oblivina sta facendo effetto con un leggero anticipo. Rimarrete svenuto al massimo per una quindicina di secondi.»
Markham sorrise debolmente. «Piacevole interludio» mormorò, poi la testa gli ricadde sul petto e lui si afflosciò sul divano.
Quando rinvenne, Shawna Vandellay gli stava accostando alle labbra una tazza di liquido scuro. Caffè nero. Ne inghiottì un poco, poi tentò di rialzarsi.
«Tesoro» disse vivacemente Shawna «siamo degli incoscienti. Devi essere terribilmente stanco. Hai chiuso gli occhi e ti sei addormentato mentre parlavamo... O forse ti siamo sembrati spaventosamente noiosi.»
«Diavolo» disse Markham. «Mi dispiace tanto. Non mi era mai capitata una cosa simile. Forse è stato... non so, ho fatto un sogno assurdo su... su certe uova, mi pare.»
«Interessante» osservò Paul. «Freud era molto noto ai vostri tempi, credo. Quel poveraccio era assolutamente assurdo come psicanalista, ma era una miniera di accostamenti letterari. Un tipico nevrotico del diciannovesimo secolo, mal programmato. Chissà, forse con stimoli corretti avrebbe potuto diventare un grande poeta lirico. Uno di questi giorni dovrai ascoltare il mio Sonetto a uno Schizofrenico. »
«Se non vi dispiace» disse Markham frastornato «penso che dovrei rincasare... È stata una giornata faticosa.»
«Caro John» mormorò Shawna «siamo disgustosamente crudeli, se non semplicemente idioti. Ma certo! Forse domani sera, magari?»
«Può darsi» rispose Markham, mentre lei lo accompagnava alla porta.
«Salve, amico» disse Paul Malloris. «E cerca di scaricarti la psiche.»
Markham gli rivolse un pallido sorriso e salì in casa sua; era oppresso dalla sensazione che ci fosse qualcosa di cui doveva ricordarsi. Qualcosa di importante, che non riusciva a mettere a fuoco. Domani, forse, gli sarebbe venuto in mente.
Per il momento desiderava disperatamente un po’ di riposo. Erano già le sei e alle dieci e mezzo (le ventidue e trenta! Regoliamo gli orologi, signori!) doveva trovarsi a casa dell’enigmatica Vivain Bertrand. Che giornata ,pensò. Che maledetta giornata!
Nelle proprie stanze, scopri che Marion-A si era cambiata d’abito. Indossava un completo sportivo verde bottiglia. Nonostante la linea severa, quell’abbigliamento le aggiungeva femminilità.
«Me ne vado a letto» le disse. «Se fra tre ore non mi fossi svegliato, chiamami.»
«Sì, signore.»
«Ti avevo detto di chiamarmi John.»
«Scusami, John.»
Gli parve di cogliere una nota di risentimento nella voce di lei. Che sciocchezza! Come poteva mostrarsi risentito un androide?
In camera da letto, si tolse in fretta gli abiti e li lasciò cadere a terra ammucchiati con malagrazia. Il letto era deliziosamente caldo. Marion-A gli aveva messo una termocoperta.
Markham sbadigliò, si stirò, e si costrinse a saltare giù dal letto.
Venti minuti più tardi, dopo una doccia e una rasatura accurata, si sentiva sveglio e ben riposato. E quando si fu vestito ed ebbe bevuto il caffè preparato da Marion, cominciò ad anticipare col pensiero l’incontro delle dieci e trenta.
La curiosità, spiegò a se stesso, era il vero incentivo. Trascurando l’evidente forza attrattiva di Vivain Bertrand, Markham sentiva che in un certo senso era lei la prima persona veramente viva che aveva incontrato. Quella ragazza esisteva in una dimensione inaccessibile a Shawna Vandellay o a Paul Malloris, o al professor Hyggens. Lei sola, infatti, apparteneva completamente e naturalmente al mondo in cui viveva.
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