Edmund Cooper - Uomini e androidi

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Uomini e androidi: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel sottosuolo vicino a Londra viene scavato un immenso magazzino dove, grazie a opportuni accorgimenti, potranno essere conservati enormi quantitativi di generi alimentari. Lo scopo dell’impresa è quello di preservare le scorte di cibo da un inquinamento radioattivo, nel caso che si scateni una guerra atomica. Dei lavori si è interessato l’ingegnere John Markham. Così, quando viene segnalata una irregolarità negli impianti elettronici, è Markham a scendere nei sotterranei per un controllo. A un tratto, una scossa violentissima, seguita da altre, poi un crollo improvviso. L’ingegnere pensa a un terremoto o a un errore di costruzione. Comunque, lì vicino c’è una delle tante nicchie col telefono collegato all’esterno. Vi arriva scavalcando i detriti, ma l’apparecchio non funziona. Be’, si tratterà di aspettare un po’. Fuori si accorgeranno che è successo qualcosa e scenderanno a cercarlo. E deve proprio essere andata così perchè Markham, adesso, è in un lettino. Si sente un po’ debole ma è sano e salvo. Però ha freddo. Molto freddo. E quella donna che si china su di lui è Katy! No, non è lei. Ma Dio Santo come le assomiglia. E quello strano dottore che dice cose tanto strampalate... Insomma, affrettatevi a leggere questo romanzo per poter dire a John Markham dove esattamente si trova e cosa gli è successo.

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«Perché non provi un intervallo da venti secondi?» disse sorridendo.

Marion-A gli rivolse uno dei suoi sorrisi rigidi, e Markham ebbe l’assurda sensazione che lei cercasse di arrossire.

Mentre finiva la sigaretta, Markham si ricordò che il problema dell’alloggio veniva in primo piano.

Con l’eliauto, ci volle poco più di un minuto per andare dal ristorante al Centro Alloggiamenti. Là, l’an­droide in carica gli presentò la lista aggiornata che pa­reva offrire ogni tipo di abitazione, dai palazzi di Westminster ai seminterrati di Chelsea. Evidentemen­te a Londra non c’era la crisi degli alloggi.

Alcune stanze in Knightsbridge venivano al quarto posto sulla lista, e quando, a suo tempo, le ebbe viste, capì che non aveva bisogno di continuare nel suo giro. Erano al terzo piano di una delle poche case vittoria­ne ancora esistenti. Le preferì ad altri appartamenti perché aveva un debole per l’architettura massiccia, perché gli piaceva la sensazione di trovarsi parecchio in alto dal suolo, e perché dalle finestre si godeva una bellissima vista della Serpentina e di Hyde Park.

L’appartamento era formato da due camere da let­to, un soggiorno, uno studio, una cucina e un bagno. A parte il bagno e la cucina, il mobilio era quasi tut­to antico; un’accozzaglia balorda e simpatica di cimeli vittoriani ed edoardiani, con alcune comodità moder­ne quali un televisore tri-di, un visifono e altri appa­recchi.

L’androide del Centro Alloggiamenti lo informò che l’affitto era di sessantacinque sterline mensili. Con la sensazione di commettere una follia, Markham riem­pì un assegno versando un semestre anticipato, vi im­presse il pollice e lo porse all’agente.

Era leggermente sorpreso. In meno di due ore aveva trovato un appartamento che poteva anche trasformar­si in una vera casa. All’improvviso si sorprese a chie­dersi cosa avrebbe pensato Katy.

In passato, specialmente prima di sposarsi, Hyde Park era stata la meta favorita dei loro week-end. Era­no passati parecchie volte davanti a ogni casa di Knightsbrige, e forse avevano perfino osservata a lun­go proprio quella, chiedendosi che effetto poteva fare abitare in una zona così elegante.

Ecco ,pensò amaramente, adesso lo saprò. Ma Katy non l’avrebbe saputo.

Con una mezza dozzina di chiavi in tasca, lasciò che Marion-A lo riconducesse all’appartamento numero tre, Rutland House, Knightsbridge. A casa... o quasi.

Solo in quel momento si rese conto che si trasferiva nella nuova abitazione con ben pochi effetti persona­li: pochi abiti che gli erano stati riconsegnati al Ri­sanatorio, e niente altro. Guardò Marion-A, perplesso.

«Non avremo proprio niente in dispensa, nemme­no caffè.»

«No, John.»

«Avrei bisogno ancora di un paio di camicie, un paio di scarpe, qualcosa da leggere... E carta da scri­vere, cose di questo genere. Compreremo anche qual­che vestito per te come... come... Al diavolo, no! Pren­deremo qualcosa di moderno adatto a questi tempi.»

«Sì, John.»

Andarono per compere. Markham spese un paio di centinaia di sterline in diversi Magazzini della Repub­blica. Marion-A venne servita con efficienza da una sarta androide, mentre Markham sceglieva le camicie più compatibili con i suoi gusti e si faceva prendere le misure per un abito. Dalla profusione di tessuti sin­tetici dalle tinte vivaci che gli venivano presentati scelse una specie di tweed di un grigio-rosso relativa­mente sobrio.

Risolto il problema dei vestiti, Markham gironzolò con curiosità negli altri reparti del magazzino per ve­dere che specie di articoli venivano offerti al pubbli­co nel ventiduesimo secolo. Molti generi li riconobbe all’istante, ma altri gli parvero davvero problematici e Marion-A dovette spiegargliene l’uso.

Markham si lasciò tentare ad acquistare per sé una combinazione di orologio da polso e radio portatile, una stilografica con carica perpetua, e una serie di scacchi d’avorio antichi, completi di scacchiera. Nel reparto gioielli vide un braccialetto di platino fine­mente cesellato e lo acquistò per Marion-A prima an­cora di rendersi conto di ciò che stava facendo. Non volle esaminare l’oscura ragione che gli aveva dettato quell’impulso, e tentò di rendere razionale l’idea del regalo dicendosi che Marion-A sarebbe sembrata più umana. Lo sorprese che il braccialetto costasse sol­tanto venticinque sterline.

Marion-A non si mostrò né commossa né entusiasta di fronte al dono. Ringraziò con la calma indifferenza di chi non è sensibile a un omaggio. Sebbene avesse previsto quel contegno, Markham ci rimase malissimo. Per ripicca, la spedì da sola a fare acquisti al reparto alimentare; poi la lasciò sola ad aspettare in eliauto, e se ne andò a prendere un tè nel ristorante quasi de­serto del magazzino.

Ormai si stava abituando alla trasformazione subita da Londra, diventata, a suo parere, una città di fan­tasmi. La popolazione della città, come aveva scoper­to da poco, arrivava sì e no a trentamila persone. La gente sembrava dispersa e sparpagliata come un grup­po di mosche su un’immensa torta.

Quanto alla popolazione di androidi la faccenda era tutta diversa. Ripensando alle esperienze fatte in quel­la prima giornata, Markham calcolò di avere visto co­me minimo quattro androidi per ogni essere umano.

Un’altra cosa che colpì Markham fu l’assoluta as­senza di bambini per le strade: gli unici li aveva visti vicino al lago prodotto dall’atomica.

A differenza del ristorante Da Nino ,dove aveva fat­to colazione a mezzogiorno, il salone ristoro del Gran­de Magazzino era quanto di più moderno si potesse immaginare in fatto di arredamento. Una dozzina di tavoli circolari senza gambe, sospesi al soffitto iride­scente per mezzo di un tubo di metallo. Il menù ve­niva proiettato su un piccolo schermo, e ciascuna por­tata era accuratamente illustrata, inoltre Markham scoprì che le ordinazioni venivano ricevute da piccoli microfoni inseriti nei tavoli e collegati direttamente con la cucina.

Stava riflettendo se ordinare tè inglese o scozzese, quando si rese conto di essere osservato. Gettò un’oc­chiata nello specchio di fronte, e vide una giovane donna dai lunghi capelli biondi, di una bellezza ecce­zionale, ferma in piedi a poca distanza dalla sua se­dia. Indossava una tunica di linea e stile vagamente cinese, di una seta blu scuro, e pantaloni di un tessu­to dallo scintillio metallico. Sulla testa aveva un pic­colo diadema di pietre preziose.

La ragazza incontrò il suo sguardo, sorrise e si av­vicinò. Markham si alzò e si voltò a guardarla.

«Salve, signor Markham. Sedete. Vi farò compa­gnia se non vi dispiace.» La voce della donna aveva un timbro musicale. «Non mi conoscete ancora» con­tinuò «ma abbiamo già un appuntamento. Sono Vivain Bertrand. Ho detto al mio A.P. di mandarvi un invito per il ricevimento di Clement a Palazzo.»

Markham cominciava a sentirsi alquanto confuso, e si malediceva per aver lasciato Marion-A nell’eliauto. Lei avrebbe potuto aiutarlo ad affrontare la situazione.

«Piacere» disse, con cortesia formale, chiedendosi se fosse corretto stringerle la mano. «Siete forse la... la moglie del Presidente?»

Lei prese posto sulla sedia accanto. «Tanto per la cronaca, spero di non sembrare la moglie di nessuno. Sono la figlia, signor Markham. Allora cosa vogliamo ordinare? Avete appetito?»

«Veramente no, signorina Bertrand. Io...»

«Chiamami pure Vivain, io ti chiamerò John. Quel ridicolo androide ha sciupato tutto. Ha proprio biso­gno di essere riprogrammato. Bene, se non hai fame, prenderemo solo un tè e un po’ di torta.»

Non aveva ancora finito di parlare, quasi, che ap­parve un androide col vassoio: servì tè e torta in si­lenzio, e si ritirò. Vivain Bertrand allungò un braccio ben tornito e premette un pulsante al centro del ta­volino. Immediatamente un cilindro trasparente di plastivetro salì dal pavimento attorno al tavolino e al­le sedie. Il sottofondo di rumori del ristorante venne completamente tagliato fuori, e Markham ebbe l’impressione di essere precipitato all’improvviso in una vasca di pesci assieme a Vivain Bertrand.

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