Edmond Hamilton - Agonia della Terra

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Agonia della Terra: краткое содержание, описание и аннотация

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Una bomba superatomica viene lanciata, da una nazione sconociuta, su una piccola città americana dove si cela un centro per le ricerche atomiche. L’esplosione ha per effetto di rompere la continuità del tempo e sbalestrare la piccola città, intatta, in un’epoca dell’avvenire, a milioni di anni nel futuro, in una Terra morente e arida, inabitabile e deserta. La Federazione delle Stelle, che governa tutti i mondi del futuro, interviene per evacuare la popolazione della città su un altro pianeta. Ma la popolazione si ribella, e, con l’aiuto di uno scienziato del futuro, alla Terra morente viene iniettata una potente carica atomica che ha la virtù di riscaldarla nuovamente. Gli ultimi superstiti rimangono quindi sulla Terra rinata e la vita degli abitanti della piccola città può riprendere il suo corso normale, nella eterna storia dell’Universo.

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«Non morirò, e potrò forse essere utile a tutti» le rispo­se Kenniston. «Ascoltami, se riesco... se riesco a trovare una via d’uscita per tutti noi, questo compenserà un poco l’accusa di aver attirato tanta sventura su Middletown, a cau­sa del Laboratorio, non ti sembra? Non ti sembra?»

Ma Carol non lo ascoltava nemmeno. Lo guardava in viso, stringendolo a sé con espressione an­gosciata. Poi disse, d’improvviso: «Sei tu, che vuoi andare!»

«Sono io che voglio andare?» ripeté Kenniston. «Ho una paura folle, invece! Mi si arriccia la pelle, solo a pensar­lo! Ma debbo andare, ecco, debbo andare!»

«Sei tu, che vuoi andare» ripeté Carol, e lo guardò nuo­vamente, come se una barriera sorgesse davvero e definitiva­mente fra loro. «Questa è la diversità, fra noi due: è sempre stato così. Io desidero solo le vecchie cose tanto amate. Tu desideri invece le cose nuove.»

Il tempo passava rapidamente, e una specie di disperazio­ne si impadronì di Kenniston. Abbracciò Carol strettamente, con una specie di brutale parossismo, come se volesse, con quella stretta, difenderla contro quella intangibile marea che li divideva sempre più.

«Me ne vado» disse. «Vado a fare ciò che posso per tutti noi. E tornerò come prima, hai capito? E tu mi aspette­rai, Carol!»

La baciò un’ultima volta, ed ella gli restituì il bacio con una strana tenerezza, come se pensasse di non rivederlo mai più, e ricordasse in quel momento tutte le belle giornate sere­ne che avevano trascorso insieme.

Quando la lasciò andare, gli occhi di Carol erano pieni di lacrime.

Poi Kenniston si avviò rapido verso la porta della cupola, accompagnato da Hubble. Tutta la città era ora vibrante di una nuova speranza, di una nuova eccitazione, che si accen­trava sulla sua persona. Ma Kenniston tremava, in cuor suo, al pensiero di ciò che lo attendeva.

Vedeva appena i visi tra la folla, che lo guardavano con an­siosa speranza, mista a rispetto. Udiva appena le voci che gli gridavano: «Buona fortuna, signor Kenniston! Buona for­tuna!» Oppure gli ricordavano il suo compito: «Dite a quella gente che non vogliamo andarcene! Diteglielo!»

Col cuore sconvolto, Kenniston uscì dalla città, attraversò il tratto di pianura desolata, e gli sportelli ermetici di quel­l’incredibile quanto paurosa astronave, si aprirono per acco­glierlo.

15

In missione, per la Terra

No! Kenniston non avrebbe mostrato alcun timore! Tutti si aspettavano, nella nave spaziale, di vederlo sconvolto dalla paura, e lo osservavano, di sottecchi, con sguardi pieni di in­teresse e non privi di un’espressione leggermente canzonato­ria. Ma Kenniston serrò i pugni nelle tasche dei pantaloni e decise fermamente che li avrebbe delusi tutti.

Aveva paura, sì. Una cosa era leggere, parlare e discutere di viaggi spaziali; un’altra cosa, e assai più dura e spavente­vole, era viaggiare realmente nello spazio, lasciare, con un balzo immane, la solida Terra, per irrompere nel vuoto in­commensurabile di una voragine senza mondi.

Se ne stava ritto, con Gorr Holl e Piers Eglin, sul ponte in­terno del Thanis ,guardando avanti a sé, attraverso i finestri­ni ricurvi, e una sensazione gelida, di repulsione fisica, gli at­tanagliava le viscere.

«Non è poi tanto emozionante come credevo...» disse con voce un poco malferma. «Solo quelle stelle là, davanti a noi...»

Lottava contro l’impulso istintivo di afferrarsi a qualche cosa per non cadere. No, non lo avrebbe fatto. Non avrebbe mai fatto una cosa simile, mentre quegli uomini dal viso ab­bronzato, dietro a lui, da tempo abituati a viaggiare nelle profondità dello spazio, lo osservavano curiosamente.

Un ronzio profondo e un leggero vibrare delle grandi strutture attorno a lui erano l’unico indizio che il Thanis si muoveva.

Kenniston vedeva una oscurità profonda, di un nero asso­luto, nella quale le stelle fiammeggiavano come fiaccole. La vivida luce azzurra di Vega era al centro di quel soprannatu­rale spettacolo, circondata dalla costellazione della Lira e da quella dell’Aquila, attraversate, a sinistra, dalla Via Lattea, smagliante e formicolante.

Solo quella sezione di cielo appariva chiara e limpida. Tut­to il resto del firmamento, che si stendeva come uno sfondo immane, era una vista incredibilmente confusa di stelle, i cui raggi sembravano torcersi, vibrare, danzare in un tripudio di luce.

Gorr Holl gli accennò un grande quadro di comandi dietro al quale sedevano quattro uomini.

«Conosci il principio della propulsione? Si tratta di raggi di reazione, innumerevoli volte più veloci della luce, che agi­scono contro il pulviscolo cosmico dello spazio.»

Kenniston sospirò: «Mi sento ignorante come un bambi­no. L’esistenza di raggi simili era assolutamente insospetta­bile, ai miei tempi. Le equazioni di Einstein dimostravano che se la materia si fosse mossa più velocemente della luce, avrebbe finito con l’espandersi indefinitamente.»

Gorr Holl rise, divertito.

«Il vostro Einstein era un grande scienziato» disse «ma abbiamo aperto nuovi campi di conoscenza, da allo­ra. Il controllo della massa, per esempio, che impedisce quella espansione, e altre cose.»

Kenniston ascoltava solo a metà. Guardava l’occhio biancoazzurro di Vega, che sembrava fissarlo, arrogante, dal grande abisso cosparso di stelle. E il guardare a quella stella lontana lo rendeva in qualche modo conscio della loro spa­ventevole velocità, del loro precipitare, della loro caduta da incubo attraverso l’infinito.

Quella sensazione era anche peggiore del momento della partenza. Eppure aveva pensato che nulla, assolutamente nulla, sarebbe stato peggiore di quel momento. Se fosse an­che vissuto per sempre, non avrebbe mai più dimenticato quegli ultimi eterni minuti, prima dello strappo dalla Terra, legato com’era su una poltrona, mentre cercava di rilassare i propri nervi e non vi riusciva, mentre osservava le luci che al­l’interno s’affievolivano, mentre sentiva il vibrare profondo dell’astronave che si preparava al balzo fuori dell’atmosfera terrestre, mentre i battiti del cuore lo soffocavano e un sudo­re ghiacciato gli scendeva per tutto il corpo, mentre cercava disperatamente di persuadersi che quella partenza non era per nulla diversa da un normale decollo di aeroplano... E poi il balzo, la pressione, la penosa sensazione del respiro che viene a mancare, la claustrofobia provocata dal sentirsi rin­chiuso in quella cosa che si muoveva a vertiginosa rapidità e sulla quale egli non aveva controllo alcuno.

Non poteva ancora sapere per quale maestria della scien­za gli occupanti di quella nave spaziale erano difesi dalle enormi pressioni di quella accelerazione. Eppure, difesi lo erano, perché la pressione non era affatto peggiore di quella che si può provare in un velocissimo ascensore. Eppure, sa­pere che la Terra si stava allontanando vertiginosamente in un abisso pauroso, rendeva quell’ascensione veramente orri­bile. Poté udire il lamento dapprima, e poi il fischio e infine l’urlo irrefrenabile dell’aria contro l’involucro metallico della nave spaziale, e poi, quasi a un tratto, tutto finì. Si trovava ora nello spazio. E sentiva profondo, nelle viscere, l’atavico terrore degli abissi, retaggio delle epoche più lontane. Pensò al vuoto immane che si apriva sotto i suoi piedi, oltre la sotti­le lastra di metallo del pavimento, e serrò i denti, spasmodi­camente, per trattenersi dal gridare.

«Non pensarci!» gli aveva detto Gorr Holl. «E ricorda­ti! Vi è stata una prima volta anche per tutti noi! Ho creduto, io stesso, di non sopravvivere a quella prima prova.» Aiutò quindi Kenniston a rialzarsi. «Andiamo sul ponte interno. È meglio che tu affronti tutto in una volta: poi ti sentirai più sollevato.»

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