Frank Herbert - Il cervello verde

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In un mondo sovrappopolato, che cercava spazio vitale nella giungla, l’Organizzazione Ecologica Internazionale sterminav sistematicamente dei voraci insetti che rendevano inospitali quelle zone. Uomini come Joha Martinho e i suoi aiutanti usavano bombole schiumogene mortali e nuove armi a vibrazione per ripulire l’inferno verde del Mato Grosso. Ma, per ragioni sconosciute, le aree già disinfestate completamente incominciarono a essere di nuovo assalite dagli insetti malgrado le impenetrabili barriere. Dalla giungla si sentirono strane storie… insetti divenuti enormi… creature dalle sembianze umane, ma i cui occhi avevano quel particolare scintillio degli insetti.

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Vierho si chinò, imbracciando la carabina. «Che cosa c’è, capo?»

«Qualcosa là sotto!»

Vierho puntò l’arma e fece partire due colpi.

Un rumore simile a un violento raschio giunse da sotto l’aiuola. Qualcosa era scoppiato.

Vierho sparò ancora. Le pallottole, esplodendo, provocarono un suono curioso simile a un tonfo.

Si udì un furioso gorgoglio, come se là sotto ci fos­se un banco di pesci intenti a cibarsi in superficie.

Silenzio.

Altre torce lampeggiarono sull’aiuola. Martinho alzò lo sguardo e vide un cerchio di scudi attorno a lui… uniformi dell’OIE e dei bandeirantes.

Concentrò nuovamente lo sguardo sulla sezione di aiuola. «Padre, ho intenzione di aprire la botola. Tienti pronto.»

«Certo, capo.»

Martinho mise un piede sotto la sbarra per far le­va sul terreno e lentamente sollevò la botola. Sem­brava saldata con una sostanza gommosa che si al­lungava in sottili filamenti. Dalla zaffata di solfuro e sublimato corrosivo Martinho capì che la sostanza gommosa non era altro che il contenuto della capsu­la sparata col fucile a gas. Dopo l’ultimo poderoso colpo, la botola si spalancò e ricadde sull’aiuola.

Alla luce delle torce Martinho poté scorgere una massa di acqua scura. Aveva l’odore del fiume.

«Sono venuti dal fiume», osservò Alvarez.

Chen-Lhu si avvicinò a Martinho e disse: «Sem­bra che gli individui mascherati siano fuggiti. Tutto procede per il meglio». E pensò: Ho fatto bene a impartire ordini a Rhin e l’ho fatto nel momento più opportuno. Dobbiamo far saltare la loro organizza­zione. Questo capo bandeirante, educato tra gli im­perialisti yankee, è un nemico. È uno di quelli che cercano di distruggerci. Non può esserci altra spie­gazione.

Martinho ignorò lo scherno nella voce di Chen-Lhu; era troppo esausto per poter reagire. Si sollevò e si guardò attorno. L’aria era ferma come se da un momento all’altro dovesse scatenarsi qualche sorta di calamità. Un gruppetto di osservatori, pro­babilmente pubblici funzionari, sostava al di là del­la cerchia di guardie, la folla invece era stata sospin­ta nelle strade adiacenti.

Da una strada laterale sopraggiunse a gran velo­cità una camionetta rossa. I finestrini luccicavano al­la luce dei proiettori e i fanali si accendevano e si spegnevano quando rasentava passanti e altri vei­coli. Alcuni poliziotti le aprivano la strada. Marti­nho riconobbe l’insegna dell’OIE sul cofano ante­riore. L’auto si arrestò sobbalzando ai margini del­l’aiuola e ne uscì Rhin Kelly.

Aveva indossato la tuta da lavoro dell’OIE. Sotto le luci della Plaza, il verde della tuta dava l’impres­sione di una chiazza d’erba scolorita dal sole.

Attraversò in fretta l’aiuola, con gli occhi fissi su Martinho; intanto pensava: Deve essere utilizzato per i nostri scopi, quindi scaricato. È un nemico. Non ci sono più dubbi.

Martinho la osservava avvicinarsi, ammirando la grazia e la femminilità del suo portamento accentua­te dalla semplice foggia dell’uniforme.

Si fermò davanti a lui e gli parlò con voce rau­ca e affannosa: «Senhor Martinho, sono venuta a salvarle la vita».

Lui scosse il capo, incredulo. «Cosa…»

«Si sta scatenando il finimondo!» spiegò lei.

Martinho poté udire degli spari in lontananza.

«La folla è in tumulto», riprese Rhin. «Si è ar­mata.»

«Che cosa diavolo sta succedendo?» chiese lui.

«Stanotte ci sono stati dei morti», rispose Rhin. «Donne e bambini fra gli altri. È crollata una pa­rete della collina dietro il Monte Ochoa, rivelando la presenza di numerose tane.»

Vierho disse: «L’orfanotrofio…»

«Sì», proseguì Rhin. «L’orfanotrofio e il con­vento situati sul Monte Ochoa sono stati travolti. La colpa è dei bandeirantes. Sa cosa si dice su…»

«Parlerò con questa gente», la interruppe Mar­tinho. Si sentì oltraggiato al pensiero di essere mi­nacciato da coloro che aveva sempre protetto. «È un’assurdità! Non abbiamo fatto nulla per…»

«Capo», intervenne Vierho. «Non si può ragionare con la folla in preda al panico.»

«Due uomini della squadra Lifcado sono già sta­ti linciati», disse Rhin. «L’unica via di scampo per lei è di fuggire immediatamente. I vostri autocarri sono a portata di mano.»

Vierho lo prese per un braccio. «Dobbiamo seguire il suo consiglio, capo.»

Martinho rimase in silenzio, ascoltando le infor­mazioni che i bandeirantes si scambiavano fra loro: «La folla… colpa nostra… orfanotrofio…»

«Dove possiamo andare?» chiese Martinho.

«I tumulti sembrano localizzati…», disse Chen-Lhu. Si interruppe e rimase in ascolto: le urla della folla si erano fatte più distinte. «Vada a casa di suo pa­dre, a Cuiaba, e si porti dietro la sua squadra. Gli al­tri possono rifugiarsi nelle zone Rosse.»

«Perché dobbiamo…»

«Rhin la raggiungerà non appena avremo esco­gitato un piano di azione.»

«Devo sapere dove trovarla», fece Rhin, pren­dendo la palla al balzo. E pensò: La casa di suo padre, già. Deve essere il centro di… là o nel Goyaz, come sospetta Travis.

«Ma non abbiamo fatto nulla», protestò Martinho.

«La prego», insistette Rhin.

Vierho lo tirò per un braccio.

Martinho trasse un profondo sospiro. «Padre, rag­giungi i tuoi compagni. Sarete più al sicuro nella zo­na Rossa. Userò il camioncino per andare a Cuiaba. Devo discutere questa faccenda con mio padre, il prefetto. Qualcuno deve mettersi in contatto con le alte sfere e farsi sentire.»

«Sentire cosa?» si intromise Alvarez.

«Il lavoro… deve essere sospeso… momentanea­mente», disse Martinho. «È necessario svolgere varie indagini.»

«È pazzesco», tuonò Alvarez. «Chi vuoi che dia ascolto a quelle fesserie?»

Martinho provò a deglutire, aveva la gola secca. L’aria della notte era fredda… opprimente, le urla della folla inferocita erano sempre più vicine. I poliziotti e i militari non sarebbero riusciti a trat­tenerla a lungo.

«Non ti ascolteranno», mormorò Alvarez, «nem­meno se hai ragione».

Le urla della folla sottolinearono la verità che trapelava dalle sue parole. Martinho sapeva che gli uomini al potere non avrebbero ammesso alcun er­rore. Erano al potere in quanto erano state fatte determinate promesse. Se quelle promesse non ve­nivano mantenute qualcuno avrebbe fatto da ca­pro espiatorio.

Forse è già stato trovato, pensò Martinho.

Lasciò che Vierho lo conducesse agli autocarri.

CAPITOLO QUARTO

Era una caverna che sovrastava le scure e umide rocce di una gola del fiume di Goyaz. All’interno, profondi pensieri pulsavano in un cervello intento ad ascoltare una radio, dalla quale la voce di un umano riferiva le notizie del giorno: disordini a Bahia, bandeirantes linciati, pronto intervento di pa­racadutisti per restaurare l’ordine…

La radio, una piccola transistor portatile, emet­teva fastidiosi suoni raschianti che riecheggiavano nella caverna, disturbando le funzioni sensoriali del cervello, ma le notizie degli umani dovevano essere ascoltate… almeno fino a quando le batterie lo avessero permesso. Forse più tardi, si sarebbero po­tute usare le cellule biochimiche, ma le conoscenze del cervello in materia di meccanica erano molto li­mitate. Di teoria ne aveva assimilata parecchia dai manuali abbandonati nella zona Rossa, ma la pra­tica era un’altra cosa.

Per qualche tempo aveva avuto a disposizione un televisore portatile, ma la sua autonomia era stata ridotta e ora non funzionava più.

Le notizie terminarono e la radio cominciò a tra­smettere della musica. Il cervello lanciò dei segnali allo strumento che si interruppe; quindi, in quel si­lenzio così a lungo sospirato, cominciò a pensare, a pulsare.

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