Bob Shaw - Cosmo selvaggio

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Cosmo selvaggio: краткое содержание, описание и аннотация

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Un’astronave stellare da esplorazione spedisce su un pianeta sconosciuto sei moduli di atterraggio e ne vede tornare sette. Su quel pianeta c’и chiaramente “qualcosa che non va”… Ma nelle zone piщ remote e selvagge del Cosmo, si sa, le cose non vanno mai perfettamente lisce e gli esploratori devono sempre stare in guardia, devono sempre aspettarsi di tutto. Giustamente Bob Shaw ha messo in epigrafe alla strabiliante saga dell’astronave “Sarafand” questi memorabili versi di R. L. Stevenson: “Per il Cosmo strano e selvaggio me ne vado, da eterno straniero. Il mio amore sono le tue strade e i brillanti occhi del pericolo”.

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Guardò con risentimento il deserto bianco, splendente sotto il sole, che si stendeva fino all’orizzonte, e si chiese come aveva potuto sembrargli bello la prima mattina che l’aveva visto. Certo, quella era stata una giornata in cui il vento tracciava disegni strani e continuamente mutevoli, con sfumature di bianco e rosso, mentre, soffiando fra le dune, esponeva gli strati di sabbia sotterranei che cambiavano subito colore sotto la luce del sole.

La Sarafand era atterrata con lo scopo di portare a termine uno dei soliti rilievi cartografici. Non c’erano difficoltà di rilievo per quanto riguardava il terreno, perciò i moduli avrebbero potuto terminare il lavoro in tre giorni, se non si fosse verificato un evento del tutto imprevedibile.

Tre persone dell’equipaggio avevano riferito di aver avuto delle apparizioni.

Le apparizioni avevano assunto due forme differenti: di esseri viventi e di edifici. Erano semi-trasparenti e svanivano come fanno di solito i miraggi, tranne per il fatto che un miraggio deve avere un’origine reale, da qualche parte. E i rilievi orbitali avevano stabilito che Saladin era un mondo morto, dove non esisteva, né era mai esistita in passato, vita intelligente.

— Sveglia, autista — disse il maggiore Giyani. — Possiamo partire.

Surgenor alzò la testa con voluta lentezza e guardò l’ufficiale baffuto, dalla carnagione scura, in piedi sull’entrata del modulo. L’uomo riusciva ad avere un’aria lisciata nonostante indossasse la divisa da combattimento. Alle sue spalle c’era un tenente dalla faccia accuratamente rasata, con un’espressione impacciata negli occhi azzurri, e un sergente dalla corporatura massiccia che portava un fucile.

— Non possiamo partire finché non siete entrati tutti — fece osservare Surgenor, senza nascondere la sua irritazione per il fatto di essere trattato come un autista. Attese che il sergente e il tenente si fossero sistemati nei due sedili posteriori, e il maggiore in quello al suo fianco. Il sergente, che a quanto ricordava Surgenor doveva chiamarsi McErlain, non posò a terra il fucile, ma lo tenne in grembo.

— Questa è la nostra destinazione — disse Giyani, porgendo a Surgenor un pezzo di carta su cui erano segnate delle coordinate.

— In linea retta la distanza è di circa…

— Cinquecentocinquanta chilometri — disse Surgenor, che aveva compiuto un rapido calcolo mentale.

Giyani sollevò le sopracciglia e scrutò Surgenor. — Vi chiamate Dave Surgenor, vero?

— Sì.

— Bene, Dave. — Giyani fece un largo sorriso, che voleva dire: «Vedi come so ammansire i civili permalosi?», poi indicò le coordinate. — Ci arriveremo per le otto, ora di bordo?

Surgenor decise, troppo tardi, che preferiva il Giyani ufficiale. Mise in moto il modulo, usando il propulsore a sospensione, e fece rotta verso sud. Durante le due ore di viaggio la conversazione fu piuttosto scarsa, ma Surgenor si accorse che Giyani si rivolgeva al sergente McErlain con disgusto neppure mascherato, mentre Kelvin, così si chiamava il tenente, evitava addirittura di parlare con lui. Il sergente rispondeva a Giyani con monosillabi e quasi con insolenza. L’atmosfera tesa fece ricordare a Surgenor le chiacchiere che aveva sentito su McErlain, al tavolo della mensa, ma la maggior parte dei suoi pensieri rimaneva concentrata sull’obiettivo della spedizione.

Quando i primi rapporti sulle apparizioni erano pervenuti ad Aesop, era stato eseguito un controllo sulle mappe geodetiche che il cervello del computer stava elaborando.

Erano apparse tracce evidenti di ristrutturazioni condotte trecentomila anni prima su strati rocciosi, in zone che corrispondevano esattamente a quelle dov’erano apparsi i miraggi.

A questo punto Aesop aveva ritirato tutti i moduli, in obbedienza alle limitazioni imposte dallo statuto del Servizio Cartografico, e aveva spedito un messaggio tachionico al Quartier Generale Regionale. Il risultato fu che l’incrociatore Admiral Carpenter , che stava attraversando quella zona di spazio, arrivò due giorni più tardi e assunse il comando.

Uno dei primi ordini del colonnello Nietzel, comandante delle forze di terra, fu che Aesop doveva considerare segrete tutte le informazioni su Saladin, ed era tenuto a non divulgarle fra il personale civile. In teoria, quindi, l’equipaggio della Sarafand avrebbe dovuto essere completamente all’oscuro degli eventi successivi, ma fra gli uomini delle due navi vi era qualche contrasto, e Surgenor aveva raccolto alcune voci.

Si diceva che i satelliti-spia messi in orbita dalla Admiral Carpenter avessero registrato migliaia di materializzazioni parziali di edifici, di strani veicoli, di animali e di esseri vestiti pesantemente. Si diceva anche che alcuni degli edifici e delle figure avessero raggiunto una solidità totale, ma che erano svaniti prima che gli aerei militari potessero raggiungerli. Era come se su Saladin ci fosse un’altra civiltà, che, all’arrivo degli stranieri, si era ritirata dietro una barriera incomprensibile decisa a non avere contatti.

Surgenor, che non aveva mai visto nessuna apparizione, non aveva prestato molta fede alle voci, ma aveva visto gli aerei della Admiral Carpenter partire sibilando a velocità supersonica, per tornare a mani vuote. E sapeva che il computer centrale della nave lavorava ventiquattr’ore su ventiquattro per elaborare l’immensa quantità di dati che giungevano dai satelliti.

Sapeva anche che le coordinate che gli aveva fornito Giyani corrispondevano a una delle zone, segnalate durante la prima esplorazione, in cui la roccia era stata anticamente scavata.

— Quanto manca? chiese Giyani, mentre il sole scendeva a sfiorare una lontana catena di colline, sull’orizzonte occidentale.

Surgenor gettò un’occhiata alla mappa-radar, che con l’avvicinarsi dell’oscurità aveva cominciato a risplendere debolmente. — Un po’ meno di trenta chilometri.

— Bene. In perfetto orario. — Giyani appoggiò la mano al calcio della pistola.

— Avete intenzione di ammazzare qualche fantasma? — chiese Surgenor.

Giyani si guardò la mano, poi guardò Surgenor. — Scusate. Ho l’ordine di non discutere l’operazione con voi. Non c’è niente di personale, Dave, ma se avessimo un mezzo di superficie adatto, voi non sareste neppure qui.

— Però ci sono. E ho voglia di vedere come va a finire.

— Significa che le carte buone sono in mano vostra, vero?

— Non ci avevo pensato. — Surgenor guardò di malumore la distesa di sabbia che scorreva sui visori del modulo, mentre da bianca diventava rosso sangue, man mano che le ultime tracce di luce abbandonavano il cielo ad occidente. Fra pochi minuti sarebbe scesa la tipica notte saladiana: deserto nero e cielo pieno di stelle, così fitte che il normale ordine delle cose pareva sovvertito; la terra era morta, mentre il cielo diventava la sede della vita. Surgenor provò un desiderio acuto di tornare a bordo della Sarafand , di rimettersi in viaggio verso soli lontani.

Il tenente Kelvin si chinò in avanti e chiese a Giyani: — Quand’è che potremo vedere qualcosa?

— Da un momento all’altro, se la previsione del computer è esatta.

— Giyani, impassibile, osservò per un attimo Surgenor, pensando evidentemente se dovesse divulgare le informazioni in suo possesso, poi si strinse nelle spalle. — Secondo le indicazioni geodetiche, circa trecentomila anni fa, in questa zona, vennero eseguite modificazioni negli strati rocciosi, proprio nel periodo in cui i Saladiani costruivano le loro città. Negli ultimi dieci giorni i satelliti-spia hanno avvistato ben sette volte una città, ma non c’è nessuna garanzia, mi hanno detto, che il grafico delle apparizioni tracciato dal computer non sia puramente accidentale. Nel qual caso non troveremo altro che deserto.

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