— Cosa c’è di speciale in questo posto? — chiese Kelvin, facendo eco alla domanda che aveva attraversato anche la mente di Surgenor.
— Se è vero che i Saladiani possono muoversi nel tempo, come pensano alcuni dei nostri, la quasi-materializzazione degli edifici potrebbe essere una specie di prodotto secondario delle loro visite nel presente. A me sembra una gran balla, ma il colonnello mi ha detto che è un processo analogo a quello che avviene quando si esce da un edificio riscaldato, e si porta con sé un po’ di aria calda in un altro ambiente. Ogni volta che questa città è apparsa, i nostri rilevatori hanno individuato una figura che sembra essere quella di una donna, in piedi sulla parte meridionale dell’area.
Giyani tamburellò con le dita sul bracciolo. — Mi è stato anche detto che questa donna era reale. Reale come noi.
Mentre ascoltava le parole del maggiore, a Surgenor parve che la cabina del Modulo Cinque, nella quale aveva trascorso tante ore, avesse assunto un’aria strana. Per un attimo, i quadranti e i comandi persero qualsiasi significato, mentre la sua mente cercava di inseguire nuovi concetti. Faceva fatica ad ammettere a se stesso la paura che l’uomo, il perfezionatore di un modello di pensiero che aveva reso possibile il dominio delle tre dimensioni spaziali, aveva finalmente incontrato una cultura più saggia, che aveva esteso il suo potere sui lunghi, grigi estuari del tempo. Ma evidentemente altri uomini avevano pensato le stesse cose, ed erano giunti alle stesse conclusioni.
— C’è qualcosa là davanti, signore — disse Kelvin.
Giyani si voltò. Tutti e quattro, in silenzio, fissarono lo schermo anteriore, sul quale erano apparsi i contorni di una città fantasma, che si stendeva da un orizzonte all’altro. File regolari di luci brillavano là dove pochi secondi prima non vi era altro che sabbia e stelle.
I parallelepipedi trasparenti della città avevano un aspetto sorprendentemente terrestre, tranne che per un particolare: le file verticali di luci, simili a finestre, non erano esattamente sovrapposte ai contorni delle case. Era come se la città, pensò Surgenor, non apparisse così come era esistita in un momento definito del tempo, ma come in una profondità di campo temporale, che si stendeva per migliaia di anni, durante i quali la lentissima deriva dei continenti l’aveva spostata di parecchi metri, producendo così immagini multiple.
Nonostante la spiegazione di Giyani, o forse proprio a causa di quella, Surgenor provò un brivido. Cominciava a intuire gli straordinari obiettivi di quella piccola spedizione.
— Diminuite la velocità e proseguite il viaggio sul terreno — disse Giyani. — D’ora in poi non dobbiamo farci notare troppo. E spegnete anche le luci.
Surgenor disinserì i sospensori e portò la velocità a cinquanta chilometri all’ora. Viaggiando così adagio, e senza punti di riferimento, il modulo sembrava fermo. I soli suoni che si udivano nella cabina erano il respiro irregolare di Kelvin e una serie di piccoli rumori metallici provenienti dal fucile che il sergente stava controllando.
Giyani si voltò. — Da quanto tempo avete lasciato la Georgetown , sergente?
— Otto anni, signore.
— Un bel pezzo.
— Sissignore. — McErlain fece una pausa. — Non ho intenzione di sparare addosso a nessuno, a meno che non mi venga ordinato, se è questo che intendete, signore.
— Sergente! — La voce di Kelvin era scandalizzata. — Vi farò rapporto per…
— Non importa — disse Giyani tranquillamente. — Il sergente ed io ci capiamo benissimo.
L’incidente aveva distratto l’attenzione di Surgenor dall’incredibile paesaggio che avevano di fronte. Ora ricordava a che proposito aveva sentito parlare del sergente McErlain alla mensa della Sarafand .
Dieci o dodici anni prima la Georgetown aveva stabilito il contatto con una nuova specie intelligente, su un pianeta alle frontiere della Bolla. Durante un improvviso e terribile conflitto, i cui particolari non erano mai stati resi pubblici ufficialmente, tutti i maschi attivi del pianeta erano stati annientati. Il mondo era stato escluso dai normali contatti con la Federazione, per permettere alla sua ultima generazione di femmine e di maschi non funzionali di finire in pace i loro giorni. Il comandante della Georgetown era stato processato davanti a una corte marziale, e l’“incidente” era passato nel catalogo delle auto-accuse che l’umanità conservava al posto della memoria di razza.
— Procedete alla stessa velocità, finché non arriviamo ai confini sud della città — ordinò Giyani.
— Dovrò accendere le luci.
— Non è necessario. Questi edifici non esistono, se non in forma molto attenuata. Potete andare dritto.
Surgenor lasciò che il modulo proseguisse nella sua rotta, e gli edifici svanirono di fronte a lui come nebbia. Quando, secondo i suoi calcoli, raggiunsero il centro dell’antica città, non si vedeva altro che la pallida luce di un lampione, dalla curiosa forma trapezoidale, così debole che si sarebbe potuto scambiarla per un riflesso su un vetro lucido.
— Gli edifici non si sono materializzati — disse Kelvin. — Non si era mai avvicinato nessuno così, prima.
— Nessuno aveva avuto dati sufficienti — rispose Giyani distrattamente, seguendo con la punta di un dito la linea dei baffi. — Ho la sensazione che le previsioni del computer si avvereranno fino all’ultimo dettaglio.
— Volete dire…
— Esatto, tenente. Sono quasi sicuro che la nostra saladiana è incinta.
Le coordinate di Surgenor erano così precise che avrebbe potuto portare il modulo sul posto con precisione millimetrica, ma Giyani gli disse di fermarsi a duecento metri di distanza. Aprì il portello e aspettò che i tre soldati scendessero sulla sabbia scura. L’aria del deserto era fredda, e la caduta di temperatura era accentuata dal fatto che la superficie sabbiosa, bianca durante il giorno, rifletteva la maggior parte del calore solare, invece di assorbirlo.
— Dovremmo sbrigarcela in pochi minuti — disse Giyani a Surgenor. — Appena tornati, partiremo immediatamente, perciò restate a bordo. Lasciate acceso il motore e tenetevi pronto a partire verso nord non appena ve lo dico.
— Non preoccupatevi, maggiore. Non ho nessuna intenzione di starmene qui tutta la notte.
Giyani si mise un paio di visori notturni, simili a occhiali, e ne diede un paio anche a Surgenor. — Mettetevi questi e teneteci d’occhio. Se vedete che le cose si mettono male, andatevene subito e chiamate la nave.
Surgenor inforcò gli occhiali e sbatté le palpebre, vedendo che la faccia di Giyani assumeva una tinta rossastra. — Credete che ci saranno difficoltà?
— No. È solo per precauzione.
— Maggiore, è vero che c’è una missione diplomatica al completo, in viaggio per il pianeta?
— E allora, Surgenor? — Nella voce di Giyani era sparita ogni traccia di socievolezza.
— Forse il colonnello Nietzel ci tiene a fare bella figura. Ma qualcuno potrebbe pensarla diversamente.
— Il colonnello Nietzel non sta abusando dei suoi poteri, autista. Ma voi sì.
I tre soldati si allontanarono silenziosamente dal modulo, e per la prima volta Surgenor si guardò intorno. Era difficile mettere a fuoco qualche cosa: un po’ come guardare in un visore tridimensionale mal regolato. Riuscì tuttavia a distinguere una figura in piedi, immobile, come un palo piantato nella sabbia.
Provava emozioni contrastanti: paura, reverenza, rispetto. Se tutte quelle teorie erano vere, si trovava di fronte a una rappresentante della più straordinaria cultura che l’uomo avesse mai incontrato nella sua cieca corsa attraverso la galassia, una razza capace di navigare le correnti del tempo con la stessa facilità con cui un’astronave si muoveva tra i flussi gravitonici dello spazio. L’istinto gli diceva che bisognava accostarsi a quegli esseri con reverenza, e soltanto dopo che avessero mostrato di essere propensi al contatto con gli umani. Ma Giyani evidentemente non la pensava così.
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