— Sì.
— Incontrerai presto un gruppo sparso di persone che stanno uscendo dall’Egitto. A centinaia, famiglie intere, che si spostano con le loro greggi e le loro tende. Cercano di occupare questo territorio, di farne la loro…
— Questo territorio? — Indicai le sterili rocce e la sterpaglia secca.
— Proprio questo — rispose il Radioso. — E si trovano contro gli abitanti dei villaggi e la gente delle città che vivono già qui. Tu e la tua truppa li aiuterete.
— Perché?
Lui mi sorrise. — Perché mi venerano, Orion. Credono non soltanto che io sia il più potente di tutti gli dèi, ma l’unico dio esistente. E presto, con il tuo aiuto, avranno perfettamente ragione.
Prima che potessi fare un’altra domanda, prima che potessi anche solo pensare, il Radioso scomparve e la colonna di fumo svanì come se non ci fosse mai stata.
Ci spingemmo verso sud, lungo il fiume che collegava due mari interni. C’erano dei villaggi disseminati lungo le rive, protetti da mura di mattoni di fango secco. Verdi terreni coltivati irrigati da canali artificiali contrastavano con il nudo marrone e grigio delle colline rocciose. La gente, lì, era diffidente: aveva visto troppe bande di vagabondi ansiose di prendere per sé quelle fertili terre o, se non ci riuscivano, di depredare e saccheggiare le città prima di riprendere il cammino. Commerciarono con noi, più che altro nel tentativo di indurci a lasciare la zona il più rapidamente possibile. Tenni sempre Elena fuori vista, dentro il carro coperto. E continuai a cercare eventuali tracce di Achei al nostro inseguimento.
Poi, in un caldo pomeriggio, mentre la foschia bollente faceva brillare come un miraggio un asciutto canyon roccioso, incontrammo gli esploratori della gente di cui mi aveva parlato il Radioso.
Erano venti guerrieri a piedi, e nemmeno due erano vestiti nello stesso modo, o dello stesso colore, o con lo stesso tipo di armi. Una vera marmaglia, alla prima occhiata. Piccoli di statura, cotti dal sole; proprio come noi, mi resi conto.
Si erano schierati nella gola più stretta del canyon vedendoci avvicinare. Mi chiesi se pensavano di riuscire a impedirci il passaggio e se saremmo arrivati al combattimento. La maggior parte di noi montava cavalli o asini. Pensai che saremmo riusciti a sfondare la loro leggera difesa, se avessimo dovuto.
Ma Lukka, osservandoli con occhio professionale, disse: — Non sono stupidi, nonostante gli stracci che hanno addosso.
— Li riconosci?
Scosse la testa spostandola il meno possibile, riuscendo comunque a rendere la negazione. — Possono essere gli Abiru contro cui ci hanno messo in guardia gli abitanti del villaggio, due giorni fa.
Feci procedere il mio cavallo. — Parlerò con il loro capo.
Lui cavalcò al mio fianco. — Posso tradurre, se parlano una qualunque lingua dell’impero.
— Riuscirò a capire la loro lingua — dissi.
Lukka mi lanciò uno strano sguardo.
— È un dono degli dèi — spiegai. — Il dono delle lingue.
Cavalcai un po’ più avanti e sollevai la mano in segno di pace. Uno dei guerrieri salì verso di me, tenendo tuttavia la spada nella mano destra. Scesi dal cavallo e rimasi in piedi sul terreno polveroso mentre mi si avvicinava. Il caldo picchiava dal cielo d’ottone, riflettendosi sulle rocce ardenti. Era come trovarsi in un forno. Il solo riparo in vista era uno spuntone di roccia lungo la parete del canyon alla mia sinistra. Ma quel giovane guerriero non mostrava nessun interesse a spostarsi dal sole bollente.
Si chiamava Beniamino; era il figlio più grande di un capo tribù. Si definivano Figli di Israele, mi disse. Beniamino era un ragazzo, e la barba cominciava appena a spuntargli. Era magro e muscoloso; ai suoi occhi non sfuggiva nulla mentre osservava i miei uomini, i cavalli, gli asini, e i carri con i buoi. Era teso e sospettoso, e stringeva la spada come se fosse stato pronto ad usarla appena glielo avessero detto.
Quando gli dissi che eravamo soldati hatti, lui usò il termine “Ittiti” e sembrò rilassarsi un po’. Quasi sorrise.
— Allora, al servizio di chi siete? — chiese.
— Di nessuno. Siamo scampati a una grande guerra, lontano, a nord-ovest di qui. Abbiamo aiutato a distruggere la regale città di Troia.
Il suo viso divenne inespressivo; non aveva mai sentito quel nome.
— Forse la conoscete come Ilio, vicino agli stretti chiamati Ellesponto che portano al Mar Nero.
Ancora nessun cenno di riconoscimento.
Io mi arresi. — C’è stata una guerra, e questi uomini hanno aiutato a prendere la città dopo un lungo assedio.
A quel punto, qualcosa brillò nei suoi occhi. — Allora perché siete qui, nella terra di Canaan?
— Stiamo andando a sud, in Egitto, per offrire i nostri servizi al Sommo Re di quella terra.
Lui mi fissò, poi si schiarì il catarro dalla gola e sputò sul terreno bruciato. — Questo per il Faraone. Alla mia gente ci sono volute quattro generazioni per sfuggire alla schiavitù dell’Egitto.
Io mi strinsi nelle spalle e risposi: — Noi siamo soldati professionisti. Abbiamo sentito che il re egiziano ha bisogno di soldati.
Quegli occhi sospettosi mi fissarono. — Non siete al servizio di nessuno, adesso?
— No. Il vecchio impero è crollato…
— Il Dio di Israele ha colpito gli Ittiti — mormorò, e stavolta sorrise davvero.
Io diedi uno sguardo a Lukka, ancora sul suo cavallo, in disparte, e fui felice di vedere che non capiva la lingua ebraica.
— Ed ora, Egli colpirà i perfidi adoratori di Baal, che si sono rinchiusi nella loro città. — Beniamino guardò dietro di me, gli uomini e i loro animali, i carri, Lukka in groppa al suo cavallo leggermente alle mie spalle, e infine ancora me. C’era una nuova luce nei suoi occhi. — Servirete il nostro Dio e il nostro popolo e ci aiuterete a prendere la città di Gerico, proprio come avete preso la città settentrionale di cui parli.
— Non stiamo cercando un’occupazione qui — dissi io. — Stiamo viaggiando verso l’Egitto.
— Servirete il Dio di Israele — insistette Beniamino. Poi, addolcendosi leggermente, disse: — Almeno venite a passare la notte nel nostro accampamento e a conoscere il nostro grande capo, Giosuè.
Io esitai, sentendo odor di trappola.
Il giovane sorrise timidamente. — Non mi perdonerebbe se vi permettessi di andarvene senza condurvi davanti a lui. Cadrei in disgrazia agli occhi di mio padre.
Era difficile discutere con lui.
— Inoltre — aggiunse, con il sorriso che si illuminava un po’ — sarà impossibile per voi andare ancora a sud senza imbattervi in altri gruppi della nostra gente. Siamo una vera moltitudine.
Mi inchinai all’inevitabile e accettai la sua offerta di ospitalità più gentilmente che potei.
Gli Israeliti erano davvero una moltitudine: centinaia di famiglie accampate in una vasta pianura tra il fiume che chiamavano Giordano e le nude montagne consumate, marrone bruciato. Le loro tende punteggiavano la terra verde e le loro greggi sollevavano nubi di polvere, mentre venivano condotte dal pascolo ai rozzi steccati degli ovili notturni.
Con il sole che calava tingendo di rosso il cielo e il vento caldo che cominciava a soffiare da quelle montagne riarse; l’odore delle greggi era quasi insopportabile. Nessuno sembrava notarlo tranne noi, nuovi arrivati. Le famiglie si stavano riunendo davanti a ciascuna tenda e cominciavano ad accendere i fuochi della sera, chiacchierando nella loro lingua gutturale; c’erano bambini che correvano, ragazzi che gridavano l’uno contro l’altro giocando con spade e scudi di legno, ragazze che ridevano con voci dal timbro acuto.
Ma quello che attirò il mio sguardo, e quello di Lukka, fu la città circondata da mura in cima a una bassa collina al centro della pianura. Dominava la regione, proprio come Troia aveva dominato la pianura di Ilio.
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