Il territorio, una serie di sterili colline e di strette valli e gole dove ci si poteva aspettare un’imboscata ad ogni svolta, era un habitat perfetto per i predoni. Il sole infernale alzava onde di calore tremolante che toglievano la forza ai miei uomini e ai loro cavalli.
Elena viaggiava nel carro, protetta da una tenda fatta con le più fini sete di Troia. Il caldo aveva tolto energia anche a lei. Il suo bel viso si era fatto pallido e teso, e come tutti era coperta di polvere fuligginosa. Ma non si lamentò neppure una volta, né ci chiese di rallentare la marcia.
— Meggido non è lontana da qui — disse Lukka in una giornata particolarmente calda e luminosa, mentre il sudore gli colava sul viso e nella barba. — Gli Hatti e gli Egiziani hanno combattuto una grande battaglia, lì.
Stavamo costeggiando un lago piuttosto grande. Sulle sue rive erano disseminati vari villaggi, ed eravamo riusciti a barattare alcune delle nostre cose in cambio di provviste. L’acqua del lago aveva un sapore amaro, ma era meglio della sete. Riempimmo borracce e barili.
— Chi ha vinto? — chiesi. Lukka rifletté sulla domanda con il solito grave silenzio, poi rispose: — Il Sommo Re Muwatallis ha vantato una nostra grande vittoria. Ma non siamo mai tornati in quel posto, e il nostro esercito rientrò molto più piccolo di quando era partito.
Viaggiammo intorno al lago, e poi lungo il fiume che ne usciva scorrendo verso sud. I villaggi erano rari, lì. Coltivare, anche lungo il fiume, era difficile con quella terra secca e polverosa. La maggior parte dei villaggi vivevano delle capre e delle pecore che brucavano l’erba rada dovunque riuscissero a trovarla. Anche quella gente parlava di Meggido e raccontava di un’enorme battaglia che si era combattuta per la città da tempi immemorabili. Ma le davano un nome leggermente diverso: Armaggeddon.
La temperatura stava diventando così torrida che cominciammo a muoverci solo durante le primissime ore del mattino e di nuovo sul finire del giorno, quando il sole era tramontato. Dormivamo di notte, nelle ore più fredde, tremando nelle nostre coperte, e cercavamo di dormire anche nelle ore più calde del pomeriggio.
Un giorno dovemmo respingere l’attacco di uno strano gruppo di razziatori. Non avevano l’aspetto di banditi. Come noi, sembravano far parte di truppe organizzate, bene armate e abbastanza disciplinate da ritirarsi quando si erano accorti che eravamo soldati professionisti.
Una mattina, facendo il mio turno di esploratore appiedato in testa alla nostra colonna, salii su una piccola altura del terreno sterile e scabroso e, riparandomi gli occhi con una mano, scrutai il baluginante, ondeggiante, infernale panorama.
Rocce e arbusti, erba secca che diventava bruna sotto il sole, tranne che per la sottile linea verde lungo le rive del fiume.
In cima a una collina rocciosa vidi salire una colonna di fumo bianco- grigiastro. Non come il fumo di un fuoco che si arriccia e si sposta col vento; questo era quasi come un pilastro, denso, che girava vorticosamente su se stesso e poi saliva in alto nel cielo accecante. Sembrava brillare, come se fosse illuminato dall’interno.
Corsi per il deserto roccioso in direzione della colonna di fumo. Mentre mi arrampicavo sul fianco della collina, sentii un formicolio sotto i piedi. Si fece più forte, quasi doloroso, mentre mi avvicinavo alla cima.
La vetta della collina era di roccia nuda, tranne che per un paio di ciuffi marroni di cespugli che sembravano morti. La colonna di fumo si alzava direttamente dalla roccia verso il cielo, senza nessuna causa apparente. Le gambe mi dolevano come se qualcuno ci stesse infilando migliaia di spilli.
— Meglio che ti tolga gli stivali, Orion — disse una voce familiare. — I chiodi sono conduttori di forze elettrostatiche. Non intendo causarti un dolore inutile.
Una fosca ira crebbe dentro di me mentre, borbottando, mi toglievo gli stivali e li buttavo da una parte. La sensazione di formicolio non scomparve del tutto, ma diminuì sino a un punto in cui potevo ignorarla.
Il Radioso uscì dalla base della colonna di fumo. Sembrava in qualche modo più vecchio di quanto l’avessi mai visto prima, con il viso più solenne, gli occhi che bruciavano di un fuoco interno. Invece delle vesti che indossava quando l’avevo visto a Ilio, era drappeggiato in un abito che sembrava fatto di lana grezza. Brillava debolmente contro la colonna ondeggiante di fumo grigiastro dietro di lui.
— Dovrei distruggerti per la tua disobbedienza — disse con un tono di voce calmo, monotono, controllato.
Le mani mi prudevano dal desiderio di artigliargli la gola, ma non potevo muoverle. Sapevo che mi controllava, che avrebbe potuto fermare il battito del mio cuore con un movimento del sopracciglio, che poteva obbligarmi ad inginocchiarmi e a strisciare ai suoi piedi solo pensandolo. La furia dentro di me divenne più calda della pietra bruciata dal sole sulla quale stavo scalzo, più calda dell’abbagliante cielo senza nubi che brillava come ottone battuto sopra di noi.
Mentre me ne stavo in piedi, con i pugni inutilmente stretti lungo i fianchi, riuscii a dire: — Non puoi distruggermi. Gli altri non te lo permetteranno. Loro ti si sono opposti, a Troia; alcuni di loro. Accusa loro della tua sconfitta.
— Lo faccio. Orion. Avrò la mia vendetta. E tu mi aiuterai a portarla a termine.
— Mai! Non alzerò un dito per aiutarti. Lavorerò contro di te in ogni modo possibile.
Trasse un profondo, drammatico sospiro e fece un passo verso di me. — Orion, non dobbiamo essere nemici. Tu sei una mia creazione, la mia creatura. Insieme, possiamo salvare il continuum.
— Da quando hai ucciso lei, hai fatto di me il tuo nemico.
Chiuse gli occhi e chinò leggermente la testa. — Lo so. Capisco. — Guardandomi ancora una volta con gli occhi attenti, disse dolcemente: — Manca anche a me.
Tentai di ridergli in faccia, ma venne fuori un ringhio.
— Orion, ho studiato la situazione attentamente. Ci può essere — ho detto solo può, fai attenzione — un modo per riportarla in vita.
Nonostante il suo controllo, feci un balzo in avanti e quasi lo afferrai per le spalle. Ma le mie mani si immobilizzarono a mezz’aria.
— Non così in fretta! — disse il Radioso. — È solo una remota possibilità. I rischi sono enormi. I pericoli…
— Non mi interessa! — dissi, con il sangue che mi pulsava violentemente nelle orecchie. — Ridammela. Riportala in vita!
— Non posso farlo da solo. E gli altri… quelli che mi si sono opposti a Troia, mi si opporranno di nuovo. Significherà una vera forzatura nel continuum, di una portata che nemmeno io ho mai tentato prima.
Sentii le sue parole, ma non riuscii a comprenderne interamente il significato. Adesso ero sicuro che mi stava dicendo la verità.
— Io non mento mai, Orion — disse, leggendomi nel pensiero. — Riportarla alla vita significa interferire nel continuum spazio-tempo in una maniera tale che potrei lacerarlo proprio come ha già fatto una volta Ahriman.
— Ma tu e gli altri Creatori siete sopravvissuti — dissi.
— Alcuni di noi sì. Altri no. Ti ho detto che gli dèi non sono necessariamente immortali.
— E non sono nemmeno giusti o misericordiosi — risposi.
Lui rise. — Proprio così. Proprio così.
— Cercherai di riportarla in vita? — La mia voce era quasi una supplica.
— Sì — disse lui, prima che il mio cuore potesse saltare di gioia, aggiunse: — Ma solo se mi obbedisci pienamente e completamente, Orion. La sua esistenza è nelle tue mani.
Non aveva senso resistergli o fingere. — Cosa vuoi che faccia?
Per un istante non rispose, come se stesse formulando i suoi piani lì per lì. Poi disse: — Ti stai dirigendo a sud, verso l’Egitto.
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