Frederik Pohl - Gli antimercanti dello spazio

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Sono passati trent’anni da quando Frederik Pohl inventò quei
che Kingsiey Amis nelle sue
mise al disopra dello stesso
di Orwell. Fu allora che dagli uffici di Madison Avenue le grandi compagnie pubblicitarie assunsero il controllo della Terra, ma fecero lo sbaglio di mandare un’astronave sul pianeta Venere. Oggi Venere è il rifugio dei refrattari e dei ribelli, il simbolo dell’anti-pubblicità, la bandiera dei nemici della produzione e del consumo. I rapporti tra i due pianeti si fanno ogni giorno più difficili. La situazione insomma è così tesa, che Frederik Pohl ha sentito la necessità di scrivere un nuovo romanzo sullo scottante argomento. E l’ha scritto.

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— Quella? Ma certo — disse Mitzi con disprezzo. — L’ho guardata uscire, sui monitor. Era infuriata. Andrà a dire a tutti i suoi amici che la Terra fa ancora più schifo di quello che credeva quando è scappata. Poi comincerà a rodersi. Le darò ancora un paio di giorni, poi la chiamerò per… vediamo, per mettere a posto certi conti che ha lasciato in sospeso sulla Terra. Poi le getterò l’amo. Abboccherà.

Sorseggiai il mio whisky. — Potresti aggiungere qualcos’altro — la punzecchiai.

Gli occhi azzurri si strinsero in maniera allarmante, ma si limitò a dire: — Hai fatto un buon lavoro, Tenny.

— Magari ancora qualcosa — insistei. — Per esempio: «Hai fatto un buon lavoro con quella disgraziata, Tenny caro. Perché non torniamo insieme?»

A questo punto le si aggrottarono anche le sopracciglia. Era una cosa seria. — Accidenti, Tenny! È stato bello fra te e me, ma adesso è finita. Io ho chiesto di rimanere, e tu torni a casa, e questa è la fine.

Non ebbi il buon senso di rinunciare. — Resto qui ancora una settimana — suggerii, e questa volta lei esplose.

— Vuoi piantarla, accidenti!

Perciò la piantai. E imprecai dentro di me. Specialmente imprecai contro Hay Lopez (Jesus Maria Lopez, all’anagrafe) che non era bello come me, e neppure (speravo) così bravo a letto, ma aveva un grosso vantaggio su di me: lui restava, e io me ne tornavo a casa. Così Mitzi aveva pensato al futuro.

— Certe volte sei proprio una noia, Tenny — disse con aria di disapprovazione. Quando Mitzi aveva quell’espressione non c’era rischio di confondersi. Ancor prima di aggrottare la fronte, mentre la tempesta si addensava all’orizzonte, apparivano le prime nubi: due linee verticali sopra il naso, fra le sopracciglia sottili come tratti di matita. Volevano dire: Attenzione! Temporale in arrivo! Poi gli occhi azzurri si raggelavano, e il lampo scoccava…

Oppure no. Questa volta no. — Tenny — disse lei rilassandosi un poco, — ho un’idea per quella sgraziata. Pensi che potremo farla infiltrare nello spionaggio venusiano?

— E perché? — grugnii. I Venusiani non avevano semplicemente il cervello per essere delle buone spie. Erano i rifiuti della società. La metà dei Conservazionisti che emigravano su Venere, rimpiangeva di averlo fatto entro i primi sei mesi, e la metà di questi venivano a implorare di poter tornare sulla Terra. Io ero quello incaricato di dir loro che non c’era niente da fare: il mio titolo ufficiale all’ambasciata era Vice Capo dei Servizi Consolari. Mitzi era quella che in seguito li sceglieva e li trasformava in suoi agenti. La sua qualifica era Direttore Associato delle Relazioni Culturali, ma le relazioni culturali principali che aveva con i Venusiani erano una bomba in un armadietto dell’aeroporto, o un incendio in un magazzino. Prima o poi i Venusiani si sarebbero resi conto che non potevano combattere contro un pianeta di quaranta miliardi di abitanti, anche se era lontano nello spazio. Allora si sarebbero gettati in ginocchio, pregando di essere riammessi nella famiglia dell’umanità prospera e civilizzata. Nel frattempo, compito di Mitzi era impedire loro di adattarsi alla fame e al freddo. O meglio, considerato che razza di inferno era il loro pianeta, alla fame e al caldo. Spie? Non c’era proprio da preoccuparsi di spie venusiane! — Come? — dissi, rendendomi conto d’improvviso che stava parlando.

— Stanno preparando qualcosa, Tenny. L’ultima volta che sono stata a Port Kathy mi hanno frugato nella stanza d’albergo.

— Sciocchezze — dissi deciso. — Senti: cosa facciamo nel tempo che mi resta?

I due solchi sopra il suo naso si formarono per un momento, poi sparirono. — Tu cos’hai in mente? — chiese.

— Un viaggetto — proposi. — È arrivata la navetta, e devo andare alla CPP per la trattativa sui prigionieri… Potresti venire anche tu.

— Oh, Tenny — disse lei, — che razza di idea! E perché dovrei venirci? — È vero che la Colonia Polare era la principale attrazione turistica di Venere… ma nella lista non c’era nient’altro, essendo Venere quello che era. — E poi la navetta in seguito farà scalo qui, e avrò da fare fin sopra i capelli. Grazie, no. — Ebbe un’esitazione. — Però è un peccato che tu non abbia visto Venere dal vero.

— Dal vero? — Fui io questa volta a mostrare perplessità. Il calore di Venere dal vero era sufficiente per sciogliere le otturazioni dei denti, se uno le aveva; e anche attorno alle città, dove c’è stata una sostanziale modifica del clima, la temperatura è spaventosa, e l’atmosfera un gas velenoso. Volete sapere com’è Venere «dal vero»? Guardate una vecchia fornace a carbone, dopo che è stata spenta, ma è ancora troppo calda per toccarla.

— Non intendevo il deserto — disse lei. — Che ne dici delle Colline Russe? Non sei mai andato a vedere la sonda Venera, e ci vuole solo un’ora… sempre che vogliamo passare una giornata assieme.

— Benissimo! — Avevo qualche idea migliore su come passare una giornata assieme, ma ero disposto ad accontentarmi. — Oggi?

— Diavolo, no, Tenny, cosa ti viene in mente? E il giorno del Lutto Planetario. Tutti i divertimenti sono chiusi.

— Allora quando? — chiesi, ma lei alzò le spalle. Non volevo che aggrottasse di nuovo la fronte, così cambiai argomento. — Cosa intendi offrirle?

Mitzi parve sorpresa. — A chi? Ah, vuoi dire a quella rinnegata. Il solito, credo. Cinque anni come agente, poi il rimpatrio… ma solo se avrà fatto un buon lavoro.

— Forse non è necessario arrivare a tanto — dissi. — L’ho studiata bene. È cotta a puntino. Basta che le offri di poter venire allo spaccio una volta al mese. Se potesse mettere le mani su qualcuno di quei buoni vecchi prodotti terrestri, farebbe qualsiasi cosa le chiedi.

Mitzi finì di bere, e rimise il bicchiere sul vassoio, guardandomi in maniera strana. — Tenny — disse, con un mezzo sorriso e scuotendo la testa, — mi mancherai quando te ne sarai andato. Sai cosa mi viene da pensare certe volte, per esempio quando non riesco ad addormentarmi subito? Penso che forse, da un certo punto di vista, non è giusto trasformare normali cittadini in spie e sabotatori…

— No, un momento… — sbottai. Ci sono certe cose che uno non dice, neanche per scherzo. Ma lei levò una mano.

— Poi guardo te — disse, — e vedo che, da un altro punto di vista, paragonato a te, sono praticamente una santa. E adesso vattene e lasciami lavorare, va bene?

Così me ne andai, chiedendomi se avevo vinto o perso in quella piccola discussione. Ma almeno ci eravamo lasciati con una specie di appuntamento, e avevo qualche idea su come renderlo più interessante.

Il Giorno del Lutto Planetario era una delle più insopportabili festività venusiane. Era l’anniversario della morte di quel vecchio bastardo, Mitchell Courtenay. Naturalmente, il personale venusiano dell’ambasciata si prendeva un giorno di vacanza, e io dovetti portarmi da solo il surrogato di caffè fino al salone del secondo piano. Da lì si godeva una buona vista della «cerimonia» in corso fuori dall’ambasciata.

Il Venusiano è fondamentalmente un troglodita, cioè un abitatore delle caverne, e ciò significa che malgrado i tubi di Hilsch, non sono ancora riusciti a soffiar tutti i gas puzzolenti che impestano la loro aria. Ammetto che hanno fatto dei progressi. Potete uscire con una tuta termica e le bombole dell’ossigeno, se ne avete voglia, almeno nei sobborghi attorno alla città. Personalmente non ne avevo mai molta voglia. Ma anche lì l’aria è velenosa. Perciò i Venusiani hanno scelto le valli più strette e profonde sulla superficie accidentata, e le hanno coperte con tetti. Lunga, stretta, sinuosa, la tipica città venusiana è, per usare le parole di Mitzi, una «tana d’anguilla». Ma una tipica città venusiana non si avvicina neppure a una vera città, naturalmente. La più grande raggiunge a malapena la penosa cifra di un centinaio di migliaia di abitanti, e questo solo quando si riempie di turisti per una delle loro disgustose feste nazionali. Ve l’immaginate: commemorare il traditore Mitch Courtenay! Naturalmente i Venusiani non conoscono la vera storia di Courtenay come me. Il padre di mia nonna era Hamilton Harns, uno dei vice-presidenti anziani della Fowler Schocken Associates, la stessa Agenzia che Courtenay aveva tradito e disonorato. Quando ero piccolo, la nonna mi raccontava come suo nonno si era accorto subito che Courtenay era un piantagrane. E Courtenay l’aveva perfino licenziato, insieme a molti altri dirigenti della filiale di San Diego, timorati dalle vendite, per coprire le sue malefatte. Ma naturalmente i Venusiani sono così pazzi che questa la chiamano una vittoria del diritto e della giustizia.

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