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Jack Vance: I racconti inediti

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Jack Vance I racconti inediti

I racconti inediti: краткое содержание, описание и аннотация

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L’antologia di Jack Vance presenta al lettore i seguenti racconti di fantascienza: «ICABEM», «La selezione», «Il sifone plagiano», «Il fato del Phalid», «Il Tempio di Han», «Il figlio dell’albero» ed «I signori di Maxus».

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Guardò lontano nella direzione della terraferma. Quel giorno Arman sarebbe partito per Maxus con seicento Otro. Quel giorno a che ora, mattina, pomeriggio, sera? Gardius guardò attorno a sé la giungla, in alto il cielo rosato, e sotto la melma.

Arman, Mardien, gli Otro, Maxus, avevano tutti perduto importanza, come eventi visti dall’estremità sbagliata di un telescopio. E se Arman fosse partito quel giorno? Oggi, domani, ieri, era indifferente per un uomo ingoiato e scomparso. Cambiò posizione. I suoi movimenti disturbarono altre bolle, che si alzarono, vennero afferrate dalla brezza e portate lontano.

Gardius fissò i globi, la ragnatela, e i suoi pensieri presero un nuovo corso. Improvvisamente si scosse, il tempo riprese significato. Quando sarebbe partito Arman da Fell? In fretta, si disse Gardius, doveva fare in fretta. Voleva vivere.

Alcune ore più tardi diede un’ultima occhiata alla piccola radura. Da un lato erano ammucchiate le sterpaglie che aveva tagliato. Dall’altro c’era un cumulo di ragni morti, dozzine, di tutte le dimensioni, da creature color della sabbia grandi come la sua mano, agili sulle zampe elastiche, a un mostro obeso grande quasi come lui stesso.

Quello l’aveva combattuto per venti minuti di sudore, usando il coltello e la lancia cauterizzante che aveva costruito con l’alimentatore e un lungo bastone. I due grandi occhi del ragno erano esattamente alla stessa distanza che c’era tra i due morsetti scoperti. Gardius l’aveva accecato quasi subito, ma nella creatura c’era una vitalità talmente inesorabile che era riuscita a individuare Gardius altrettanto bene senza occhi.

Con un’ostinazione esasperante e carica d’odio il ragno gli aveva dato la caccia tutt’attorno alla radura, nella melma fumante. Indietreggiando Gardius gli aveva spezzato le zampe. Finalmente il ragno era barcollato in un mucchio di peli e zampe affusolate, e Gardius era crollato, ansimando, contro il tronco dell’albero delle sfere.

Girò le spalle alla radura. Sopra la sua testa ondeggiava alto un gruppo di globi, centinaia e centinaia, ognuno assicurato con un filo di ragnatela a una corda centrale.

Non c’era più nulla che potesse trattenerlo. Scivolò sul seggiolino che aveva tagliato da un pezzo di radice, si chinò, e tagliò la corda con il coltello. La fune di ormeggio si schiantò, e il pallone sollevò Gardius dal terreno fradicio, lontano dalla radura con il mucchio di ragni morti, su nella luce rossa di Ramus.

La brezza lo afferrò e lo portò verso la terraferma.

Andò alla deriva per tutto il giorno. Il vento che soffiava verso le pianure calde lo sospingeva senza sosta. Gardius calcolava che la sua velocità si aggirasse tra le dieci e le quindici miglia all’ora. Per percorrere cento miglia ci sarebbero volute otto, dieci ore, sarebbe stata notte. Troppo tardi. Si agitò nell’imbracatura, guardò avanti, nel bagliore rosato: nient’altro che la grande scodella di melma, foglie, rami.

Ramus attraversò il cielo, scese ruotando sull’orizzonte, e finalmente Gardius vide il profilo viola delle montagne che scintillavano come lamé. Allora ritornò il pieno significato della sua esistenza, l’assoluta urgenza della sua rapidità. Ma il vento non soffiava più forte, anzi avvicinandosi la sera diminuiva, e Gardius veniva sospinto blandamente nell’aria serica.

La notte scese prima che potesse vedere sotto di sé gli appezzamenti di terra coltivata. All’istante liberò una dozzina di globi e scese a terra.

Dolorante, rabbioso, esultante, impaziente, si alzò sulla terraferma in uno dei campi spazzati dal vento e costellati di funghi immaturi. Il mazzo di bolle scomparve nella notte. Attraversò il campo al piccolo trotto, saltò un fossato, girò intorno a un campicello di granoturco, trovò una strada. In lontananza scintillava un gruppo di luci.

Con i piedi gonfi, sofferente, affamato, assetato, Gardius entrò nel villaggio. Si fermò a una taverna con i muri fatti di terra grumosa. Un’insegna appesa sopra la strada diceva Al Gaio Caunbal , con sotto un pesce fosforescente verde e giallo.

Gardius spinse la porta di assi e l’aprì; entrò in una stanza acre dell’odore di cibo e bevande. Si lasciò cadere su una sedia a un lungo tavolo, e una donna grassa e impassibile, al suo comando, gli portò stufato, pane, e birra gialla e spumosa. Si riempì la bocca, tracannò la birra, si guardò attorno per la stanza. «Dov’è il telefono?» chiese alla donna.

La faccia scura della donna si raggrinzì in uno spasmo di innocente ilarità. Indicò sopra la sua testa. «Ti sta quasi tra i capelli.»

Gardius si alzò, sfogliò la guida, compose il numero. La linea si collegò con un sibilo, una voce disse: «Spazioporto, parla Jeotsa.»

«La nave di Arman è decollata oggi?»

Ci fu una pausa, poi: «Sì, è decollata. È partita questo pomeriggio.»

Le spalle di Gardius si incurvarono Era incapace di muoversi e di parlare. La voce all’altro capo disse: «Si dice che si sia solo spostata da qualche parte su Alam. Forse è ancora sul pianeta. A quanto ne so non c’è un campo lassù, e non so dove potrebbe atterrare. Gli Otro sembra che abbiano i carboni ardenti sotto i piedi.»

«Dov’è la loro più grande pista d’atterraggio?»

«Non ne hanno. Qualche volta le aeromobili atterrano a Solveg.»

Gardius riappese. Chiamò la donna grassa «Dove posso trovare un velivolo?»

Il volto della donna mostrò interesse. «Mio figlio ti porterà dove vuoi. Ma il denaro, dov’è il tuo denaro?»

Gardius ringhiò. «Verrà pagato. Fallo venire subito qui davanti.»

Si buttò in bocca dell’altro cibo, e bevve birra fino a quando udì il ronzio e il sibilo delle eliche fuori dalla finestra.

Lasciò una moneta d’argento sul tavolo, corse all’esterno, saltò nel velivolo. «Sulle Terre Alte di Alam. A Solveg, se sai dove si trova.»

L’altopiano mostrava scure colline ondulate e valli spruzzate di luci colorate come un immenso, irreale paese dei balocchi.

Il pilota disse: «Quella è Solveg e quello è il campo. Vuoi che atterri?»

«No, basta che voli basso.»

Alla luce dell’umido satellite rosa il campo era deserto. Gardius disse: «Vai a nord, alla punta estrema delle Terre Alte.»

Volarono per venti minuti. I villaggi correvano via sotto di loro. Poi fu la volta della foresta scura, e finalmente la brughiera dove sorgeva il villino dal tetto a punta di Arman. A cento iarde di distanza giganteggiava la nave nera. La luce balenava fioca dal portello d’entrata, e da uno o due oblò. Per il resto la nave era immersa nel buio.

«Fammi scendere,» disse Gardius. «In silenzio.»

Gli venne in mente che non aveva armi. Chiese al pilota: «Hai una pistola, un raggio termico, esplosore, ionico, qualunque cosa? Ti pagherò bene.»

Il pilota lo guardò in tralice. «No. Perché hai bisogno di un’arma?» Poi, come pentendosi dell’audacia della domanda — perché Gardius, con i vestiti macchiati, la faccia smunta e contusa e gli occhi infuocati non invitava certo alla confidenza — distolse gli occhi.

Gardius non gli diede risposta. Il velivolo si posò a terra. Gardius tirò fuori un biglietto dalla borsa. «È abbastanza?»

Il pilota assentì con un borbottio, e subito si sollevò in aria.

Gardius si fermò a guardare la nave nera, barcollando un poco. Avrebbe dovuto essere lucido, vigoroso, ma aveva la vista annebbiata e si sentiva le braccia e le gambe pesanti, idropiche. La fatica gli ottundeva il cervello, impedendogli di essere vigile e attento.

Non aveva altra arma oltre al suo coltello, e Arman era sicuro di sé e arrogante sulla nave nera. Udì un rumore di passi bruschi e decisi sulla ghiaia. Ritirandosi nell’ombra vide due uomini avvicinarsi alla nave ed entrare. Dall’interno udì il clangore del metallo.

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