Jack Vance - I racconti inediti

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L’antologia di Jack Vance presenta al lettore i seguenti racconti di fantascienza: «ICABEM», «La selezione», «Il sifone plagiano», «Il fato del Phalid», «Il Tempio di Han», «Il figlio dell’albero» ed «I signori di Maxus».

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«Vero.»

Allixter scoccò al Capo un’occhiata rigorosa. «Sicuro che era Rhetus?»

«Innanzitutto non ho mai detto che lo fosse. Ho detto che il codice era sei meno quattro meno nove.»

«Hai un quadro di quel codice?»

Senza parlare il Capo gli buttò uno schema dell’oscillografo.

«Ampiezza sei, frequenze quattro e nove,» disse Allixter accigliato. «Quasi sei, quasi quattro e nove. Non sono precise. Ma sono abbastanza prossime da colpire i contatti.»

«Esatto. Bene, prendi la tua attrezzatura, sali nel teletrasporto, revisiona quella installazione.»

Preoccupato, Allixter si tirò il mento gaelico a forma di cuneo. «Forse…» Fece una pausa.

«Forse cosa?»

«Sai cosa penso?»

«No.»

«Mi sembra che potrebbe essere una stazione amatoriale, oppure una banda di dirottatori. Il teletrasporto di Rhetus tratta carichi di valore. Ora se una banda riuscisse a deviare il teletrasporto verso la propria stazione…»

«Se pensi così puoi portarti una pistola.»

Allixter si sfregò le mani nervosamente. «Mi sembra un lavoro per la polizia, Capo.»

Il Capo lo scrutò con gli scattanti occhi neri. «A me sembra che il codice abbia un calo di trentuno centesimi percento. Forse uno sciocco sta schiacciando i bottoni sbagliati su quel Mammut. Voglio che tu vada a spianare la faccenda. Per che cosa credi di ricevere mille franchi al mese?»

Allixter bofonchiò qualcosa sull’infinito valore della vita umana. Il Capo disse: «Se non ti piace, conosco meccanici migliori di te a cui piacerebbe.»

«Mi piace,» disse Allixter.

«Metti il Tipo X.»

Le folte sopracciglia nere di Allixter divennero due punti interrogativi. «Rhetus ha una buona atmosfera. Il Tipo X è anti-alogeno…»

«Metti il Tipo X. Non corriamo rischi superflui. Supponiamo che sia una installazione illegale. Portati anche il Linguaid. E una pistola.»

«Vedo che siamo della stessa opinione,» disse Allixter.

«Non dimenticare l’accumulatore di riserva, e controlla il tuo erogatore. Evans ha riferito di un tubo che perde sull’unità supplementare. L’ho fatta dichiarare inagibile, ma forse non è l’unica.»

Lo spogliatoio dei meccanici era deserto. In un cupo silenzio Allixter indossò il Tipo X: prima una spessa tuta intera connessa a elementi termici, poi una guaina sottile di pellicola inerte per isolarlo da un’atmosfera forse pericolosa, alti stivali di metallo e gomma al silicone intrecciati, impenetrabili al caldo, al freddo, all’umidità e ai danni meccanici. Una cintura assicurata con cinghie attorno alla vita e alla spalla fungeva da supporto per la borsa degli attrezzi, un erogatore e l’unità di controllo umidità, due accumulatori nuovi, un coltello a lama fissa con fodero, una pistola tipo JAR, e una torcia termica.

In corridoio incontrò Sam Schmitz. «Carr è ai bottoni. Sta verificandoti la taratura del codice…»

Una porta scorrevole con la scritta PERICOLO, VIETATO ENTRARE si aprì per loro, ed entrarono nel deposito centrale, uno stanzone lungo pieno di suoni, attività, polvere, e soprattutto di mille odori insoliti, zaffate di aromi speziati, balsami e afrori di mille prodotti extraplanetari che arrivavano sulla vicina cinghia.

Il soffitto luminoso emanava un bagliore bianco e freddo che fugava ogni ombra. In quella luce non c’era riverbero né occultamento; ogni articolo sulle cinghie si esponeva minuziosamente agli occhi dei controllori. Le pareti, suddivise in blocchi dal soffitto al pavimento, erano dipinte a colori differenti per meglio distinguere le campate dove varie partite, temporaneamente accatastate, attendevano la rispedizione.

Una stretta piattaforma chiusa da vetrate tagliava il deposito in due. Avanti e indietro dalla piattaforma alle cinghie, gli impiegati in camiciotti da lavoro azzurri e bianchi scattavano a controllare le merci in arrivo su un lato e in partenza sul lato opposto, ceste, sacchi, casse, balle, borse, rastrelliere e scatole.

Macchinari, parti metalliche in lingotti e sagome stampate, invii di frutta e verdura dalla Terra venivano inoltrati alle colonie, alle fattorie, alle miniere. Altri invii esotici da altri mondi arrivavano per allettare e stimolare i sofisticati di Parigi, Londra, Benares, Sahara City. Taniche d’acqua, botti di quercia di whisky, bottiglie verdi di vino, case prefabbricate, aeromobili, motoscafi per i laghi delle Tanagra Highlands. Legni bellissimi, riccamente venati e caratterizzati, dalle paludi di latifoglie di un pianeta giungla; metalli preziosi, minerali, cristalli, vetri, sabbie, tutto passava sulle cinghie, avvicinandosi o allontanandosi dalle cortine gemelle di oro brunito, colpite da tremolanti raggi di luce, all’estremità opposta dello stanzone.

A un capo della cortina della cinghia in uscita, un omone biondo sedeva in una cabina sopraelevata, masticando nervosamente della gomma. Allixter e Schmitz scansarono la cinghia in entrata, oltrepassarono la piattaforma degli impiegati, e approfittarono della cinghia in uscita per raggiungere la cabina dell’operatore.

Carr tirò indietro una leva e la cinghia si fermò lentamente. «Tutto pronto per la partenza?»

«Sì, tutto sistemato,» disse Schmitz allegramente. Saltò su nella cabina mentre Allixter se ne stava incupito a fissare la cortina. «Come va tua moglie, Carr?» chiese Schmitz. «Ho sentito che si è presa una dermatite da qualcosa che hai portato a casa sui vestiti.»

«Sta bene,» disse Carr. «È stato quel kapok di Deneb Kaitos. Adesso vediamo, devo stabilire questo codice falso. Ehi, Scotty,» gridò rivolto a Allixter, «hai già fatto testamento? È come saltare giù da un aeroplano stringendosi il naso e sperando di cadere in acqua.»

Allixter fece un gesto noncurante. «Roba di tutti i giorni, Carr, ragazzo mio. Regola quei quadranti, ho intenzione di tornare, stasera.»

Carr scosse la testa in contrita ammirazione. «Ti pagano mille franchi per questo, fratello, tocca a te. Ho visto qualche cosa venire fuori dal teletrasporto quando le registrazioni sono un po’ fuori fase. Pannelli di legno compensato arrivano come fazzoletti di mussolina, un agitatore a turbina diventa circa un gallone di ruggine dall’aspetto buffo.»

Allixter strinse le labbra sui denti, e fece schioccare le nocche.

«Eccolo,» disse Carr. Una lampadina rossa sul pannello si accese, tremolò, ondeggiò in un arancione fumoso, passò a un bianco abbagliante. «È arrivato.»

Schmitz si sporse dalla cabina. «Okay, Allixter, è tutto tuo.»

Allixter si infilò il casco, lo chiuse ermeticamente, gonfiò la tuta. Carr ridacchiò nell’orecchio di Schmitz: «Scotty è cupo forte per questa faccenda.»

Schmitz sogghignò. «Ha paura di sbucare nel magazzino di qualche dirottatore.»

Carr gli rivolse uno sguardo blandamente curioso. «È vero?»

Schmitz sputò. «Diavolo, no. Sta andando su Rhetus, a regolare la taratura del codificatore. Così è come la vedo io.» Sputò ancora. «Naturalmente potrei sbagliarmi.»

Allixter sollevò il casco e urlò a Schmitz: «Farai meglio a portarmi giù il Linguaid.»

Schmitz gli rispose con un ghigno. «Non sai parlare Inglese? È tutto quello che sentirai su Rhetus.»

«Il Capo dice di prendere il Linguaid. Perciò tiralo fuori.»

Un ronzio risuonò sul pannello di Carr. Carr grugnì. «Dagli il suo analizzatore. Non posso tenere ferma la cinghia tutto il giorno. Il vecchio Hannegan sta strillando che deve far partire la sua uva per Centauri.»

Schmitz disse bruscamente poche parole in una griglia e pochi secondi dopo uscì un corriere dall’officina facendo rotolare davanti a sé il Linguaid, una scatola nera sospesa tra due ruote.

«Fai attenzione con quel congegno,» disse Schmitz. «Costa un occhio, ed è l’unico equipaggiamento decente che abbiamo da quando Olson ha fuso il Semantalizzatore. Non lasciarlo su Rhetus.»

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