Jack Vance - I racconti inediti

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L’antologia di Jack Vance presenta al lettore i seguenti racconti di fantascienza: «ICABEM», «La selezione», «Il sifone plagiano», «Il fato del Phalid», «Il Tempio di Han», «Il figlio dell’albero» ed «I signori di Maxus».

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Jarvis fece per alzarsi. «Stai comodo,» disse Gildig. «Ti tengo d’occhio, Jarvis.»

Jarvis si rilassò sorridendo come un lupo. Il vecchio, guardandolo con la coda dell’occhio, disse: «Questo ovviamente non è affatto conclusivo. Veniamo al sangue. Nel sangue ci sono delle cellule. Le cellule contengono un nucleo e dei geni, e i geni di ogni uomo sono diversi. Perciò, riguardo al sangue…»

Jarvis parlò, continuando a sorridere: «Hai scoperto che è il mio?»

«Esatto.»

«Vecchio, tu menti. Io non ho ferite sul mio corpo.»

«Le ferite guariscono in fretta, Jarvis.»

«Vecchio, tu hai fallito come fidato servitore di Belson.»

«Eh? E come?»

«Per stupidità, forse peggio.»

«Sì? E precisamente?»

«Le tracce… In laboratorio hai compresso zolle della palude. Hai scoperto che ci voleva un peso di 160 libbre per ottenere l’effetto delle impronte su Fenn.»

«Sì. Esattamente.»

«La gravità di Fenn è sei decimi della media terrestre. La compressione di 160 libbre su Fenn è più facilmente ottenuta da un uomo di 240 o 250 libbre, come Gildig.»

Gildig si sollevò a metà. «Osi accusare me?»

«Sei colpevole?»

«No.»

«Non puoi provarlo.»

«Non ho bisogno di provarlo! Quelle tracce potrebbero essere state lasciate da un uomo più leggero carico del tesoro. Quanto pesava?»

«Un tesoro leggero come la seta,» disse il vecchio. «Non più di cento libbre.»

Tixon indietreggiò in un angolo. «Jarvis è colpevole!»

Noel spalancò la giacca sgargiante, rivelando uno stupefacente congegno: la bocca di una pistola gli sporgeva dal petto, un’arma sorprendentemente adatta al suo corpo. Adesso Jarvis sapeva dove Noel teneva il suo raggio dammel. Noel rise. «Jarvis… il traditore!»

«No,» disse Jarvis, «ti sbagli. Io sono l’unico servitore leale di Belson in questa stanza. Se Belson fosse qui, glielo direi.»

Il vecchio parlò in fretta: «Ne abbiamo avuto abbastanza di queste risposte evasive. Uccidilo, Gildig.»

Gildig distese il braccio; da sotto il polso, fuori dalla manica, spuntò un tubo di metallo lungo tre piedi, che già oscillava alla trazione del polso di Gildig. Jarvis balzò all’indietro, il tubo lo colpì sull’anca contusa; lo sputaschegge sparò. La mano di Gildig era sparita, esplosa.

«Uccidi, uccidi,» cantilenava il vecchio ritirandosi.

La porta si aprì; entrò un uomo pacato, di bell’aspetto.

«Io sono Belson.»

«Il traditore, Belson,» gridò il vecchio. «Jarvis, il traditore!»

«No, no,» disse Jarvis. «Posso spiegarvi.»

«Parla, Jarvis. È il tuo ultimo momento.»

«Ero su Fenn, sì! Ero la nuova recluta, sì! Era il mio sangue, sì! Ma traditore no! Io ero l’uomo che è stato creduto morto quando il traditore se n’è andato.»

«E chi è questo traditore?»

«Chi era su Fenn? Chi è stato svelto a levare la voce contro Jarvis? Chi sapeva del tesoro?»

«Bah!» disse il vecchio, mentre lo sguardo mite di Belson si spostava su di lui.

«Chi ha parlato poco fa del levare del sole all’ora del misfatto?»

«Un errore!»

«Un errore, davvero!»

«Sì, Finch,» disse Belson rivolto al vecchio, «come mai conoscevi con tanta precisione l’ora del furto?»

«Una stima, un’ipotesi, un’intelligente deduzione.»

Belson si girò verso Gildig, che era rimasto fermo stringendosi stupidamente il moncone del braccio. «Vai, Gildig; fatti mettere una mano nuova alla clinica. Dai loro il nome di Belisario.»

«Sì, signore.» Gildig uscì barcollando.

«Tu, Noel,» disse Belson. «Prenota un passaggio per Achernar; vai a Pasatiempo, e aspetta istruzioni all’Auberge Bacchanal.»

«Sì, Belson.» Noel se ne andò.

«Tixon…»

«Il mio nome è Capitano Pardee, Belson.»

«…Non ho bisogno di te, adesso, ma terrò a mente le tue rinomate capacità.»

«Grazie, signore, buona giornata.» Anche Tixon se ne andò.

«Conrad, ho un pacco da portare alla città di Sudanapolis, sulla Terra; aspettami nella Suite RS, di sopra.»

«Va bene, Belson.» Conrad si voltò e uscì a passo di marcia dalla porta.

«Jarvis.»

«Sì, Belson.»

«Intendo parlarti ancora, oggi. Aspettami nell’atrio.»

«Va bene.» Jarvis si girò e uscì dalla stanza. Udì Belson dire quietamente al vecchio: «E adesso, Finch, in quanto a te…» e poi altre parole e suoni, interrotti dal chiudersi della porta.

IL SIFONE PLAGIANO

Il barista era l’uomo più grande e grosso dell’Hub. Aveva una faccia lunga e sottile, un torace e una pancia come un barile di carne e ossa. Buttava fuori gli ubriachi sospingendoli verso la porta a colpi di pancia, saltando loro attorno, facendoli avanzare come un danzatore del ventre sgraziato ed elefantesco. Notizie degne di fiducia paragonavano i colpi ai calci di un mulo. Marvin Allixter, un magro nervoso prossimo ai quaranta, avrebbe voluto dirgli che era una canaglia, uno sleale mangiasoldi, ma frenava prudentemente la lingua.

Il barista rigirò la bolla avanti e indietro, esaminando da ogni lato la piccola creatura imprigionata. Splendeva e luccicava come un prisma, giallo sole, smeraldo, malva struggente, vermiglio, tutti i colori più puri. «Venti franchi,» disse senza entusiasmo.

«Venti franchi?» Allixter batté entrambi i pugni sul banco con fare drammatico. «Adesso tu stai scherzando.»

«Nessuno scherzo,» borbottò il barista.

Allixter si sporse in avanti con serietà, pensando di appellarsi alla ragione di quell’uomo. «Adesso, Buck, guarda qui. La bolla è un puro cristallo di roccia, vecchio di forse un milione di anni. E bada, i Kickerjee scavano per un anno intero, si ritengono fortunati se ne trovano uno o due, e anche allora solo in un grosso pezzo di quarzo. Sgobbano e lucidano girano e voltano, e uno scivola di mano e va in frantumi, la bolla si spacca, il piccolo cola lentamente fuori e muore.»

Il barista si girò per versare due whisky lisci a una coppia di sogghignanti magazzinieri. «Troppo fragile. Se lo comprassi e uno di questi ubriachi lo rompesse, avrei perso venti franchi.»

«Venti franchi?» chiese Allixter costernato. «Non è cifra da pronunciare assieme a questo gioiellino. Diamine, per venti franchi venderei prima il mio orecchio.»

«D’accordo.» Buck il barista agitò giocosamente un coltello.

Allora Allixter pensò di fare leva sulla cupidigia dell’uomo. «Questo stesso oggetto mi costa cinquecento franchi alla fonte.»

Il barista gli rise in faccia. «Voi ragazzi della squadra teletrasporto cantate tutti la stessa canzone. Trovate un gingillo da qualche parte vicino alle stazioni, lo riportate indietro di contrabbando attraverso il teletrasporto, raccontate una frottola fantasiosa su quanto vi costa, e lo rifilate al primo babbeo che vi ascolta.» Si versò un bicchiere d’acqua e lo bevve strizzando l’occhio ai magazzinieri.

«Già una volta sono stato fregato. Ho comprato un animaletto da Hank Evans, diceva che sapeva ballare, diceva che conosceva tutte le danze dei nativi di Kalong, e davvero sembrava che sapesse ballare. Ho dato come anticipo quarantadue franchi per quell’animale. Poi ho scoperto che aveva i piedi piagati per la nuova gravità, e stava saltellando da un piede all’altro per alleviare il dolore. Erano queste le danze.»

Allixter si mosse a disagio, gettò un’occhiata alla porta da sopra la spalla. Sam Schmitz, lo spedizioniere, già da un’ora stava facendo ronzare il suo distintivo, e Sam era un uomo impaziente. Si riappoggiò al banco, sfoggiando un’aria indifferente. «Guarda attraverso quali colori passa questo birbantello… ecco ! Quel rosso! Hai mai visto niente di così luminoso? Pensa che effetto farebbe al collo di una signora!»

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