Jack Vance - I racconti inediti

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L’antologia di Jack Vance presenta al lettore i seguenti racconti di fantascienza: «ICABEM», «La selezione», «Il sifone plagiano», «Il fato del Phalid», «Il Tempio di Han», «Il figlio dell’albero» ed «I signori di Maxus».

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Kitty, la bionda e fasciatissima entraîneuse, disse in un contralto mozzafiato: «Credo che sia incantevole. Io sarei orgogliosa di portarlo.»

Il barista prese di nuovo in mano la bolla. «Io non ne conosco di signore.» La esaminò dubbioso. «È davvero un gingillo grazioso. Bene, forse sgancerò venti franchi.»

Lo schermo alle sue spalle ronzò. Accese audio e doppio visore assieme senza aspettare prima l’identificazione dell’autore della chiamata, poi spostò di fianco la propria mole. Allixter non ebbe il tempo di abbassare la testa. Sam Schmitz lo fissò faccia a faccia.

« Allixter! » latrò Schmitz. «Hai cinque minuti per venire a rapporto. Dopo, me ne infischio!» Lo schermo rimase vuoto.

Allixter osservò da sotto le scure sopracciglia aggrottate il barista che lo guardava placidamente. «Visto che vai di fretta,» disse Buck, «facciamo venticinque franchi. È un ciondolo carino.»

Allixter si alzò, continuando a fissare il barista. Fece passare la bolla da una mano all’altra. Buck tese le braccia allarmato. «Piano… potrebbe rompersi.» Affondò una mano nella cassa. «Ecco i tuoi venticinque franchi.»

«Cinquecento,» disse Allixter.

«Non posso,» disse il proprietario del bar.

«Fai quattrocento.»

Buck scosse la testa, fissando Allixter con occhi astutamente stretti. Allixter si voltò, uscì dal bar senza una parola. Il barista aspettò immobile come una statua. La faccia lunga e scura di Allixter si affacciò alla porta. «Trecento.»

«Venticinque franchi.»

Allixter contorse la faccia in un’espressione di agonia e se ne andò.

Nella via si fermò. Il deposito, un edificio enorme a forma di cubo, si levava a picco nel sole invernale, dominando i quartieri periferici piuttosto malfamati dell’Hub. Dalla sua base si dipartivano i magazzini, scintillanti massicciate di alluminio lunghe ognuna un quarto di miglio. Camion e rimorchi strofinavano il muso contro le campate laterali come sanguisughe rosse e azzurre.

I tetti dei magazzini servivano da ponti di carico, dove caricatori flessibili stipavano le stive delle navi spaziali con prodotti provenienti da un centinaio di mondi. Allixter rimase a guardare un momento l’attività, sapendo che per tutta l’attività visibile, nove decimi del traffico passavano non visti sul teletrasporto, diretti a stazioni terrestri continentali, a stazioni tra i pianeti, tra le stelle.

«Accidenti!» disse Allixter. Andò senza fretta al transito sull’angolo considerando la piccola bolla. Forse avrebbe dovuto venderla, venticinque franchi significavano ventiquattro franchi di guadagno. Respinse l’idea. Un uomo poteva portare solo tanto così sul teletrasporto, e gli spettava un profitto decente per la sua impresa.

La bolla era in effetti una sorta di creatura marina che era stata buttata dal mare sulle spiagge rosa di… Allixter non ricordava il nome del pianeta, ma il codice della stazione era 9-3-2. La rimise nella sacca, entrò nel vano del transito, sterzò, salì e sbucò d’un tratto sul ponte del deposito amministrativo.

A pochi passi c’era il cubicolo di vetro dove Sam Schmitz, il Caposervizio e Spedizioniere, sedeva su un alto sgabello. Allixter fece scivolare indietro un pannello, e disse: «Salve, Sam,» con voce gentile. Schmitz aveva una faccia tonda e grassoccia, rossa e feroce. Aveva la mandibola sporgente e l’espressione generale di un bulldog.

«Allixter,» disse Schmitz, «sarai sorpreso. Qui attorno stiamo diventando più severi. Voi ragazzi della squadra riparazioni vi siete messi in testa l’idea di essere un pugno di aristocratici, responsabili solo davanti a Dio. Questo è un errore. Tu dovevi essere in servizio di emergenza tre ore fa. Per due ore il Capo mi ha masticato il fondoschiena perché voleva un meccanico. Ti trovo nel bar di Buck. Io voglio essere buono con voi ragazzi, ma dovete rigare diritto.»

Allixter ascoltava senza concentrazione, annuendo al momento giusto. Dove avrebbe potuto provare a vendere la bolla? Forse avrebbe dovuto aspettare di avere una settimana di ferie, e portarla giù a Edmonton o a Chicago. O meglio ancora l’avrebbe messa da parte fino a quando avesse accumulato qualche altro oggetto, e poi sarebbe andato a Parigi, o a Città del Messico, dove girava un sacco di soldi. Schmitz si fermò per riprendere fiato.

«C’è niente sul ruolino di marcia, Sam?» chiese Allixter.

La reazione lo fece trasalire. Il mento di Sam tremolò per la collera. «Dannazione! Di cosa credi che abbia parlato negli ultimi cinque minuti?»

Allixter riandò indietro disperatamente con la memoria, racimolando una parola qui, una frase là. Si massaggiò la guancia e la mascella sottile, e disse: «Non ho afferrato proprio tutto, Sam. Forse se provassi e ripetermelo… Esattamente qual è la lamentela?»

Sam levò le braccia al cielo, disgustato. «Vai a trovare il Capo. Ti farà lui il quadro della situazione. Io sono esausto.»

Allixter attraversò il ponte, girò per un corridoio, si fermò davanti a un’alta porta verde con lettere di bronzo che dicevano: DIRETTORE DI SERVIZIO E MANUTENZIONE. AVANTI.

Spinse il bottone. La porta si aprì e Allixter entrò nell’ufficio esterno. La segretaria alzò lo sguardo. «Il Capo mi sta aspettando,» disse Allixter.

«Non è un segreto.» Poi disse nella griglia: «Scotty Allixter è qui.» Ascoltò all’auricolare, fece cenno ad Allixter, e fece scattare la serratura della porta interna. Allixter la fece scivolare indietro ed entrò nell’ufficio. L’aria, come sempre, aveva un odore acre di medicinali che irritava il naso di Allixter.

Il Capo era un uomo di bassa statura, costruito secondo uno schema angolare. La sua pelle era grinzosa e gialla, disseccata come un limone vecchio. Gli occhi erano delle palline nere che scattavano come per una sorta di elettricità interna. Rade ciocche di capelli crespi gli crescevano sulla testa, alcune bianche, alcune nere, senza ordine apparente. La pelle del collo era rugosa come quella di un alligatore, e il lato destro era deturpato fino al mento bitorzoluto da una spessa striscia di tessuto cicatriziale. Allixter non aveva mai visto il Capo ridere, non l’aveva mai sentito parlare se non con una secca, monotona voce nasale.

Senza preliminari, il Capo disse: «Schmitz probabilmente ti ha già fatto il quadro d questo lavoro.»

Allixter si sedette. «A essere franco, Capo, non ho afferrato bene.»

Il Capo parlò come se dovesse spiegare a un idiota le buone maniere a tavola, piano, con enunciazioni attente. «Sei già stato alla Stazione Rhetus?»

«Codice sei meno quattro meno nove. Certamente. Hanno una nuova installazione Mammut.»

«Ebbene, sei meno quattro meno nove arriva fuori fase.»

Le folte sopracciglia diritte di Allixter si levarono ad arco. «Così presto? Diamine, abbiamo appena…»

«La storia è questa,» disse il Capo seccamente. «Il teletrasporto è arrivato, raschiando appena sullo spigolo terminale del sintonizzatore. Ho calcolato una diminuzione di trentuno centesimi per cento nella fase.»

Allixter si grattò il mento. «Ha l’aria di esserci una perdita nel selettore.»

«È possibile,» convenne il Capo.

«O forse hanno un nuovo spedizioniere che sta giocando con le rettifiche.»

«Per essere certi di cogliere in pieno nel segno voglio mandarti su sei meno quattro meno nove, con una diminuzione della stessa percentuale con cui è arrivato.»

Allixter sussultò. «Sembra pericoloso. Se il codice non colpisce direttamente i contatti arriverò su Rhetus in condizioni ben misere.»

Il Capo si spinse all’indietro nella poltrona. «È lavoro per un uomo di servizio. Tu sei di emergenza. Quindi tocca a te.»

Allixter guardò corrucciato fuori dalla finestra, oltre le distese nebbiose del Grande Lago Slave. «Qui c’è qualcosa di sospetto. Quello è un Mammut nuovo, e lavorano di precisione.»

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