Fred Hoyle - L’insidia di Andromeda
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Si chinò in avanti e gli porse i fogli, ma Fleming tenne le mani in tasca, rifiutando di prenderli; Madeleine li lasciò cadere a terra.
John si chinò a raccoglierli e li mise ordinatamente su di un angolo vuoto del banco. «Dovresti parlare alla Gamboul,» disse tranquillamente, «non vuole vedermi e non si fida più di Abu. Ma forse ascolterà te. Se potessi persuaderla a concederci una maggiore libertà e più aiuti da fuori…»
La Dawnay sembrava assorta nei suoi pensieri. «Non so, veramente non so…» mormorò.
Senza il minimo segno di preavviso, vi fu uno scoppio terribile di tuono. Il fabbricato ne fu scosso e tutti gli apparecchi sul banco vibrarono tintinnando. Subito, appena il fracasso morì, si alzò l’urlo del vento.
«Persino la Gamboul dovrebbe capire che questa storia del tempo non è una cosa possibile da manovrare, e che non fa parte del suo dannato programma,» osservò Fleming, quando il rumore fu cessato.
«Va bene,» disse Madeleine, «cercherò di spiegarglielo.»
Fino alla mattina dopo, non fu certo se avrebbero ottenuto il colloquio. Quindi la Gamboul mandò alla Dawnay l’ordine di presentarsi alla sua residenza privata, che una volta era appartenuta al colonnello Salim. Da quello che si diceva, la Gamboul andava molto raramente, ormai, al palazzo presidenziale, evitando persino di fare rapporto sulle normali attività del paese. Il presidente era tenuto virtualmente prigioniero. Ma non sembrava che se ne preoccupasse troppo: era malato. La rarefazione dell’atmosfera — relativamente leggera — stava già colpendo le persone più anziane. Il presidente soffriva di una bronchite.
L’ex residenza di Salim appariva trascurata e rovinata. Aveva subito alcuni danni minori durante un temporale; nessuno si era dato la pena di spazzare via i detriti. Le alte palme che erano vissute nel cortile interno per più di cinquant’anni, erano state spezzate dal vento.
Una sentinella armata scortò la Dawnay all’ufficio della Gamboul. Vide immediatamente e con sorpresa quanto fosse cambiata la donna. Tutta la sensualità sembrava essere sparita dalla sua faccia, che era diventata più bella in un modo selvaggio ed affascinante; ora c’era qualcosa di fanatico nello sguardo dei suoi brillanti occhi neri, l’espressione di un essere posseduto e invasato in modo terrificante.
Si comportò in maniera inaspettatamente amichevole, chiedendo cosa potesse fare. «Ha tutto quello che le serve per il suo lavoro?» domandò.
«Per il suo, non per il mio,» la corresse Madeleine. Poi, senza preamboli, le fece un conciso ed esatto rapporto sulle cause dell’innaturale cambiamento del clima.
La Gamboul ascoltò tranquillamente, senza interrompere. Poi andò alla finestra e guardò fuori, al di sopra della città, verso la massa dei cumuli scuri sul deserto.
Rimase silenziosa per qualche attimo, dopo che la Dawnay ebbe finito.
«E come moriremo?» chiese, tornando verso la propria scrivania e sedendosi. La Dawnay glielo spiegò.
La Gamboul agitò espressivamente una mano. «Questo non era il senso del messaggio!» protestò. «Non era stabilito che accadesse. Ogni cosa era chiara e logica. Quello che ho visto era… desolazione — ma non così. E c’era anche il potere.»
«Che cosa le avevano detto che doveva fare?» chiese Madeleine prontamente.
La mente di Janine vagava lontana, rivivendo quella notte davanti allo schermo del calcolatore. «Governare,» mormorò, «tutti sanno che così deve essere, ma nessuno vuole fare uno sforzo reale. Qualcuno ci ha provato…»
«Chi? Hitler? Napoleone?» suggerì la Dawnay.
La Gamboul non sembrò offesa. «Sì,» disse, «ma non erano abbastanza intelligenti; o, piuttosto, non avevano l’aiuto dell’intelligenza di lassù. Sarà necessario sacrificare quasi tutto. Ma non in questo modo! Non ora! Non siamo pronti!»
«Quanto potere ha?» domandò la Dawnay.
«Abbastanza, qui. Ma questo era soltanto il principio.»
«Potrebbe ancora esserlo,» disse Madeleine. Si rendeva conto, adesso, che c’era un mezzo per fare leva sulla paura e sull’ambizione di quella donna.
La Gamboul si volse di scatto verso di lei. «Cosa intende dire?» chiese.
«È possibile,» disse la Dawnay, «che riusciamo a trovare un sistema per salvare l’atmosfera. Non è molto probabile, ma c’è qualche possibilità. Abbiamo avuto un aiuto dal calcolatore con una formula che sembra essere un antibatterio. Forse riusciremo a sintetizzarla. Ma ho bisogno di aiuto e di equipaggiamento. Se ci riusciremo, dovremo produrlo in grandi quantità, e pomparlo nel mare e su tutto il mondo.»
La Gamboul le dette un’occhiata sospettosa. «E come potrà produrne tanto?»
Accuratamente, la Dawnay le spiegò che una volta creato il siero, esso si sarebbe riprodotto naturalmente, probabilmente con un ritmo più veloce dei batteri che erano già nel mare. «Una volta iniziata la coltura in grande, potremo mandarne dei campioni in tutti gli altri paesi, dove i vari laboratori riuscirebbero di sicuro a produrne simultaneamente.»
La Gamboul dette in una risata. Non era un suono gradevole, perché non c’era un’ombra di gioia in essa, ma soltanto una sfrenata esultanza. «Lo faremo,» disse, «ma non permetteremo agli altri governi di cooperare. La Intel costruirà tutti gli impianti di cui lei ha bisogno. La Intel metterà in vendita il siero al suo giusto prezzo. E questo ci darà il potere che mi è stato promesso. Fa parte del messaggio, dopotutto. Io non avevo capito. Ora il mondo sarà nostro, nelle nostre mani.»
La Dawnay si alzò in piedi, fissandola. «Non sarà suo!» sentì di stare gridando, troppo profondamente colpita per accorgersi del rischio che correva. «Lei è una pazza! Questo non fa parte del piano.»
Ma la Gamboul non sembrò notarla; la fissò semplicemente con occhi scintillanti, e le parlò come se fosse stata un servo venuto a ricevere ordini.
«Faccia richiesta di tutto l’equipaggiamento del quale ha bisogno, professoressa. Le assicuro che non ci saranno restrizioni, su questo.»
Un proiettore portatile era stato installato nella Cabinet Room, al n. 10 di Downing Street. Il Primo ministro, pochi colleghi anziani — incluso il ministro della Scienza ed Osborne — sedevano da un lato della tavola, guardando lo schermo.
Il Primo ministro alzò una mano. «Basta così,» disse stancamente. «Accendete le luci, volete?» La scena di una palude desolata, su quelli che erano stati i campi più fertili dell’Olanda, svanì dallo schermo.
«Il punto è questo, signore: possiamo trasmetterlo sui canali della televisione?» chiese il segretario di stato.
«Perché no?» disse il Premier, «della gente che riesce a sopportare tutte queste cose, può anche vederle. Forse proveranno pure una specie di tragico conforto, nel notare che l’Europa sta ancora peggio di noi. Ad ogni modo, non lo vedranno in molti. Dubito che un decimo del paese abbia ancora l’elettricità.»
Schiacciò il tabacco nella pipa, poi la posò. Fumare era diventato quasi impossibile, con la difficoltà che c’era a respirare. «Nessuna notizia di Neilson?» domandò.
«Non ancora, signore,» rispose Osborne, «ma c’è un altro rapporto della professoressa Dawnay, arrivato con un volo della Intel. È un messaggio tecnico, che il direttore delle ricerche scientifiche sta studiando. Ma, riassunto alla meglio, dice che il batterio è una creatura biochimica, creata dal calcolatore di Thorness.»
«E la professoressa sta facendo qualcosa?»
«Scrive che vi sta lavorando sopra, signore. Noi speriamo che riesca a dare un indirizzo a Neilson, in modo che lui possa aiutarla.»
«Non potrebbe questo aviatore arabo — o quel che diavolo è — far rientrare Neilson, una volta che ci siano dei fatti precisi sui quali lavorare?»
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