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Isaac Asimov: L'uomo del bicentenario

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Isaac Asimov L'uomo del bicentenario

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Vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior racconto in 1977. Anche pubblicato come “L’uomo bicentenario”.

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Isaac Asimov

L’uomo del bicentenario

Le Tre Leggi della Robotica:

1. Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.

3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge.

Andrew Martin disse: — Grazie — e si accomodò sulla sedia che gli veniva offerta. Non aveva l’aria di essere allo stremo delle risorse, eppure era così.

In verità nessuna emozione traspariva dalla sua faccia liscia e impassibile, se si eccettua un’ombra di tristezza, forse immaginaria, nello sguardo. Aveva i capelli lisci, castano chiaro, molto sottili, e la faccia glabra come se si fosse rasato di fresco con cura. Indossava abiti distinti, un po’ antiquati, ma in perfetto ordine, di velluto violaceo.

Di fronte a lui, dalla parte opposta della scrivania, sedeva il chirurgo, e la targhetta col nome era preceduta da una serie completa di lettere d’identità che Andrew ignorò. Era più che sufficiente chiamarlo dottore.

— Quando potrà essere eseguito l’intervento, dottore? — chiese.

Con voce pacata, non priva dell’immancabile nota di rispetto che i robot riservano agli esseri umani, il chirurgo disse: — Non credo di aver capito bene, signore. Come e su chi deve essere eseguita l’operazione?

Si sarebbe potuto notare un’espressione di rispettosa intransigenza sulla faccia del chirurgo, se un robot del suo tipo, in acciaio leggermente scuro, fosse stato in grado di assumere una qualunque espressione.

Andrew Martin esaminava la destra del robot, la mano che eseguiva gli interventi, ora immobile sulla scrivania. Aveva dita lunghe modellate seguendo curve artistiche così appropriate che pareva di vedere il bisturi adattarvisi senza fatica, divenendo tutt’uno con esse.

Quel chirurgo non avrebbe mai avuto dubbi, non avrebbe commesso errori, non si sarebbe mostrato incerto nell’operare. Questa abilità eccezionale derivava naturalmente dalla raffinata specializzazione, una specializzazione che l’uomo ambiva talmente di raggiungere che pochi robot disponevano ancora di un cervello indipendente. Un chirurgo, naturalmente, doveva avere un cervello, e questo però, sebbene ne fosse dotato, era talmente limitato nelle sue capacità che non riconosceva Andrew. Probabilmente non aveva nemmeno mai sentito parlare di lui.

— Avete mai pensato se vi piacerebbe essere un uomo? — gli chiese Andrew.

Il chirurgo esitò mentre la domanda si inseriva nel punto adatto dei circuiti positronici del suo cervello, e infine rispose: — Ma io sono un robot, signore.

— Non sarebbe meglio essere un uomo?

— Sarebbe meglio, signore, essere un chirurgo migliore. Non potrei esserlo se fossi un uomo, ma solo se fossi un robot più perfezionato. Mi piacerebbe essere un robot più perfezionato.

— Non vi offende il fatto che possa impartirvi degli ordini? Che possa dirvi: «Alzati, siediti, gira a destra, a sinistra» e che voi dobbiate farlo solo perché ve lo dico?

— È una gioia per me accontentarvi, signore. Se i vostri ordini contrastassero col mio funzionamento inducendomi a mancare di rispetto a voi o a un altro essere umano, allora non obbedirei. La Prima Legge, relativa ai miei doveri per la salvaguardia della sicurezza umana, prevarrebbe sulla Seconda per quanto riguarda l’obbedienza. Altrimenti, per me, è un piacere obbedire… Ma su chi devo eseguire l’operazione?

— Su di me — disse Andrew.

— È impossibile. Si tratta di un’operazione indubbiamente pericolosa.

— Non ha importanza — disse calmo Andrew.

— Io non devo recare danno — asserì il chirurgo.

— È vero, ma solo quando si tratta di esseri umani — disse Andrew. — Io invece sono un robot.

Quando era appena uscito dalla fabbrica, Andrew aveva tutto l’aspetto del classico robot dalle linee funzionali e aveva dato ottimi risultati nella casa in cui era stato portato, in un’epoca in cui i robot in servizio domestico e perfino i robot sulla Terra erano una rarità.

La famiglia era composta di quattro persone: il Signore, la Signora, la Signorina e la Signorina Piccola. Lui, naturalmente, ne conosceva i nomi, ma non li usava mai. Il Signore si chiamava Gerald Martin.

Il robot aveva una matricola che cominciava con le lettere NDR, seguite da alcuni numeri che lui non ricordava. Naturalmente era passato molto tempo, comunque se avesse voluto non se li sarebbe potuti scordare. Solo che non voleva ricordare.

La Signorina Piccola era stata la prima a chiamarlo Andrew perché s’impappinava sulle lettere, e anche gli altri avevano preso quell’abitudine.

La Signorina Piccola… Era vissuta novant’anni, e ormai era morta da molto tempo. Lui aveva tentato una volta di chiamarla Signora, ma lei non glielo aveva permesso, ed era rimasta la Signorina Piccola fino al suo ultimo giorno.

Andrew avrebbe dovuto svolgere le mansioni di maggiordomo, domestico e cameriera personale della Signora. Quelli, per lui, erano stati giorni sperimentali, come del resto per tutti i robot, salvo che nelle fabbriche e nelle postazioni industriali extraterrestri.

I Martin erano molto soddisfatti di lui e spesso lo esentavano dal lavoro perché la Signorina e la Signorina Piccola preferivano che giocasse con loro.

Era stata la Signorina a decidere. — Noi ti ordiniamo di giocare e tu devi obbedire ai nostri ordini.

— Mi dispiace, Signorina — disse Andrew. — Ma esiste un ordine del Signore a cui devo dare la precedenza.

Ma lei ribatté: — Papà ha detto che sperava che tu facessi le pulizie. Questo non è un ordine. Invece io ti ordino di giocare.

Il Signore non aveva sollevato obiezioni. Era affezionato alle figlie più ancora della Signora, e anche Andrew si era affezionato a loro, o almeno l’effetto che le due bambine avevano sul suo modo di agire, trasportato sul piano umano si sarebbe definito il risultato dell’affetto. E Andrew lo chiamava così perché non avrebbe saputo come definirlo altrimenti.

Era stato per la Signorina Piccola che Andrew aveva scolpito un ciondolo di legno. Lei glielo aveva ordinato perché, a quanto pareva, la Signorina aveva ricevuto in dono un ciondolo d’avorio per il compleanno, e la Signorina Piccola era rimasta male. Possedeva solo un pezzetto di legno e l’aveva dato ad Andrew insieme a un coltellino da cucina.

Lui aveva scolpito il ciondolo in quattro e quattr’otto, e la Piccola aveva detto: — Com’è bello, Andrew! Lo mostrerò a papà.

Il Signore si era rifiutato di credere che l’avesse fatto il robot. — Dimmi la verità, Mandy, dove l’hai preso? — Mandy era il nome della Piccola. Dopo che lei gli ebbe giurato che aveva detto la verità, il Signore aveva chiesto a Andrew: — L’hai fatto davvero tu?

— Sì, signore.

— Anche il disegno?

— Sì, signore.

— Da dove l’hai copiato?

— È una rappresentazione geometrica che si adattava alla venatura del legno, signore.

Il giorno dopo, il Signore gli portò un altro pezzo di legno, più grande, e un vibro-coltello elettrico. — Fa’ qualcosa con questo pezzo di legno, Andrew. Quello cne vuoi tu.

Andrew eseguì, e il Signore rimase a osservarlo, poi esaminò il prodotto a lungo. Da quel giorno, Andrew fu esentato dal servizio. Gli ordinarono invece di leggere libri di arredamento e imparò a costruire scrivanie e armadietti.

— Fai delle cose bellissime, Andrew — disse il Signore.

— Mi diverto a farle, Signore.

— Ti diverti?

— Facendole, sento che i circuiti del mio cervello funzionano meglio. Ho sentito la parola «divertire» e so cosa significa, perciò mi sembra che serva bene a definire quello che provo.

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