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Isaac Asimov: L'uomo del bicentenario

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Isaac Asimov L'uomo del bicentenario

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Vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior racconto in 1977. Anche pubblicato come “L’uomo bicentenario”.

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Di tanto in tanto entrava nella stanza qualcuno, e Andrew lo fissava con calma, finché l’altro era costretto a distogliere lo sguardo per primo.

Finalmente entrò Paul Martin. Era sorpreso, o almeno così pareva, ma Andrew non era in grado di distinguerne bene l’espressione. Paul aveva preso l’abitudine di usare un trucco pesante, com’era di moda sia per gli uomini sia per le donne, e sebbene così il suo volto apparisse più saldo e liscio, ad Andrew non piaceva, anche se provava un senso di disagio nel disapprovare, sia pure tacitamente, gli esseri umani. Sentiva che sarebbe stato capace di scrivere anche su questo argomento, ed era certo che una volta i robot non si sarebbero mai sognati di disapprovare gli esseri umani.

— Vieni, Andrew — disse Paul. — Mi dispiace averti fatto aspettare, ma dovevo finire una cosa importante. Vieni. Hai detto che volevi parlarmi, ma non avevo capito che volessi farlo di persona venendo qui.

— Se avete da fare, Paul, posso aspettare ancora.

Paul diede un’occhiata al disegno mutevole delle ombre sul quadrante del segnatempo a muro, e disse: — Posso dedicarti qualche minuto. Sei venuto solo?

— Ho noleggiato un’auto.

— Hai avuto fastidi? — chiese preoccupato Paul.

— Non ne prevedevo. I miei diritti sono protetti dalla legge.

Paul era sempre più preoccupato. — Andrew, ti ho spiegato che non devi interpretare la legge in modo troppo lato, e in certe condizioni… Se insisti ad andare in giro vestito, finirai col cacciarti nei guai… come quella volta.

— La prima e l’unica, Paul. Mi dispiace che tu sia seccato.

— Bene, senti, prova a considerare le cose da questo punto di vista: Tu sei una specie di leggenda vivente, vali troppo, sotto molti aspetti, per mettere a repentaglio con leggerezza la tua incolumità… Ma dimmi, come va il libro?

— Sto terminandolo, Paul. L’editore ne è soddisfatto.

— Bene!

— Non so se sia soddisfatto per il libro in sé o perché prevede di venderne molte copie in quanto l’autore è un robot.

— Be’, sai, è umano…

— Ma a me non dispiace. Basta che lo venda e mi faccia guadagnare, perché ho bisogno di denaro.

— La nonna ti ha lasciato…

— È stata molto generosa e io non voglio più contare sull’aiuto della famiglia. Conto invece sulla percentuale delle vendite del libro per poter fare il prossimo passo.

— Di cosa si tratta?

— Voglio parlare col direttore generale della U.S. Robot e Uomini Meccanici. Ho cercato di fissare un appuntamento, ma inutilmente. Ma dal momento che si sono rifiutati di collaborare con me alla stesura del libro, questo loro atteggiamento non mi stupisce.

Paul si mise a ridere. — Se ti aspetti della collaborazione sei un illuso. Si sono rifiutati perfino di dare il loro appoggio quando abbiamo lottato per i diritti dei robot. Anzi, erano palesemente ostili. Secondo loro, se un robot gode di qualche diritto, la gente non vorrà più comprarne.

— Però, se provaste a telefonare voi, potreste riuscire a combinarmi un appuntamento.

— Non credere che sia ben visto da quella gente, Andrew.

— Però voi potreste far capire che, se accettano di vedermi, lo studio Feingold e Martin rinuncerà a lanciare un’altra campagna in favore di un’altra legge più favorevole ai robot.

— Ma questa non è una bugia, Andrew?

— Si, e io non posso mentire. Quindi dovete telefonare voi.

— Ah, tu non puoi mentire, ma mi sproni a farlo, eh? Diventi sempre più umano, Andrew.

La cosa non fu facile, ma il nome Martin aveva molto peso e alla fine Paul riuscì nell’intento.

E quando l’accordo fu concluso, Harley Smythe-Robertson, che, per parte di madre, discendeva dal fondatore dell’azienda, e aveva aggiunto il cognome della madre a quello paterno proprio per questo, aveva un’aria molto turbata. Gli mancava poco per andare in pensione e durante la sua presidenza si era quasi totalmente occupato dei diritti dei robot. Aveva i capelli grigi e radi appiccicati al cranio, la faccia priva di trucco e lanciava di tanto in tanto a Andrew qualche rapida occhiata ostile.

— Signore — disse Andrew, — circa un secolo fa un certo Merton Mansky, che lavorava qui, mi spiegò che le regole matematiche che sono alla base dei circuiti positronici sono troppo complicate per consentire soluzioni che non siano approssimative, e che di conseguenza le mie capacità non erano del tutto prevedibili.

— Questo avveniva un secolo fa — Smythe-Robertson esitò prima di aggiungere con voce glaciale: signore. — Ma adesso le cose sono cambiate. I nostri robot sono costruiti in modo da essere in grado di svolgere unicamente le mansioni previste.

— Certo — intervenne Paul che aveva voluto essere presente per avere la certezza che la ditta, come diceva lui, «non barasse». — Col risultato che il mio segretario s’inceppa tutte le volte che dovrebbe fornire una prestazione sia pur lievemente diversa dalle solite.

— Sarebbe peggio se improvvisasse — disse Smythe-Robertson.

— Allora non fabbricate più robot come me che siano versatili e adattabili?

— No.

— Le ricerche che ho svolto mentre scrivevo il mio libro mi hanno rivelato che io sono il più anziano robot ancora in attività — disse Andrew.

— E nessuno vi toglierà questo primato, in quanto ora i robot sono fatti in modo da durare al massimo venticinque anni. Poi vengono ritirati e sostituiti con nuovi modelli.

— Nessuno dei robot costruiti ora è in grado di funzionare dopo venticinque anni? — ripeté con aria soddisfatta Paul. — Allora, sotto questo aspetto Andrew è eccezionale.

Cogliendo la palla al balzo, Andrew disse: — Essendo il più vecchio e il più versatile robot esistente al mondo non sono abbastanza eccezionale perché l’azienda mi riserbi un trattamento speciale?

— Per niente — rispose Smythe-Robertson, raggelandosi. — Anzi, la vostra originalità è d’imbarazzo all’azienda. Se invece di esser stato venduto, per non so quale errore o disguido, foste stato noleggiato come avviene per gli altri, sareste stato sostituito da un pezzo.

— Qui vi volevo — lo interruppe Andrew. — Io sono un robot libero, padrone di me stesso. E sono venuto a chiedervi di essere sostituito. È una cosa che si può fare solo col consenso del proprietario. Oggi, grazie al noleggio, lo mettete come clausola nel contratto, ma ai miei tempi non succedeva.

La faccia di Smythe-Robertson tradiva sorpresa e perplessità, e per un momento regnò il silenzio. Andrev si ritrovò a fissare l’olografia sulla parete. Era la maschera mortuaria di Susan Calvin, la santa patrona dei robotisti, morta ormai da duecento anni, ma che Andrew aveva imparato a conoscere bene nel corso delle ricerche svolte per scrivere il suo libro.

— Com’è possibile che sostituisca voi per voi? — disse alla fine Smythe-Robertson. — Se devo sostituirvi come robot, come posso consegnare a voi, in qualità di proprietario, il nuovo robot, dato che al momento della sostituzione avrete cessato di esistere? — e concluse la tirata con un sorriso torvo.

— Non è una cosa impossibile — disse Paul. — La sede della personalità di Andrew si trova nel suo cervello positronico, che è l’unica parte che non si può sostituire senza creare con questo un nuovo robot. Il proprietario, quindi, se consideriamo tale Andrew, è il cervello positronico. Tutte le altre parti del corpo possono venire rimpiazzate senza alterare la personalità del robot e dipendono tutte dal cervello. Andrew, sarebbe meglio dire che vuoi fornire al tuo cervello un nuovo corpo.

— Proprio cosi — ammise con calma Andrew. E a Smythe-Robertson: — Voi avete fabbricato androidi, non è vero? Robot dotati in tutto e per tutto di apparenza umana, anche nella composizione della pelle?

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