E aveva una gran voglia di riprovare.
Doveva però stabilire con quale criterio si collocassero le menti entro il complesso della raffigurazione simbolica. Quello era il tasto di Ideko: ma a chi appartenevano i sei adiacenti? Ai suoi genitori? Ai suoi figli? A sua moglie?… Be’ forse sua moglie no, non esistendo fra loro affinità genetica.
Tuttavia il meccanismo non poteva essere così elementare, o così rigido. Non è possibile incasellare ordinatamente gli esseri umani in base solo ai legami di sangue: ci sono troppe combinazioni, troppe variazioni nella composizione e nelle dimensioni del nucleo familiare.
Poteva darsi allora che fosse capitata nella zona giapponese della parete; forse tutti quegli esagoni rappresentavano individui appartenenti alla medesima cultura. O forse era tutta gente nata lo stesso giorno, sparpagliata quindi ai quattro angoli del mondo.
O forse lei era giunta là guidata dall’istinto. Chissà che l’esagono di Kyle non fosse quello lì a destra, che era stata sul punto di toccare cambiando idea all’ultimissimo istante in favore di Ideko… proprio come a scuola le era successo tante volte di scartare una prima risposta corretta preferendone un’altra che si rivelava sbagliata.
Sette miliardi di possibilità.
E allora vada per il primo esagono. Basta avvicinare il dito e…
Contatto!
Sorprendente anche stavolta.
Sbalorditiva sensazione.
Contatto con un’altra mente.
Mal che vada non era incappata in un daltonico. I colori c’erano tutti, anche se magari un poco strani. La pelle, per esempio, dava troppo sul verde.
Forse ciascuno possedeva una percezione cromatica leggermente diversa e anche le persone senza difetti visivi interpretavano ognuna a modo proprio. Il colore, in fondo, era frutto di elaborazione psicologica. Nel mondo reale non esisteva “il rosso”; si trattava solo della maniera in cui la mente sceglieva d’interpretare le lunghezze d’onda fra 630 e 750 nanometri. In effetti i sette colori dell’iride (rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto) erano stati determinati da Newton in modo alquanto arbitrario, la loro quantità derivava dal fatto che a Sir Isaac piaceva l’idea che il numero dei colori fosse un numero primo, ma Heather non era mai riuscita a individuare il presunto “indaco” in mezzo al blu e al violetto.
Quasi subito, comunque, la sua attenzione venne catturata da ben altro che la semplice visione dei colori.
L’individuo che la ospitava (di nuovo maschio, o così per lo meno sembrava per via di una vaga ma pur innegabile sensazione di aggressività) era estremamente agitato a causa di qualcosa.
Si trovava in un negozio. Un negozio di articoli vari. Giornalaio tabaccheria profumeria, una cosa del genere. Ma le marche risultavano in gran parte ignote a Heather. E i prezzi…
Ah, il simbolo della sterlina.
Inghilterra, dunque. E quell’inglese (quel “ragazzo” inglese, ne era certa) sembrava particolarmente interessato all’espositore dei dolciumi.
Con Ideko aveva trovato un’invalicabile barriera linguistica, ma stavolta poteva azzardare un approccio diretto. — Ragazzo! — chiamò. — Ehi, ragazzo!
Nessun mutamento nella condizione mentale dell’ospite, che rimase assolutamente inconsapevole del suo tentativo.
— Ragazzo! Giovanotto! Figliolo! — Una pausa. — Babbeo! Segaiolo! — Se non riusciva a scuoterlo così… E invece niente. L’attenzione del ragazzo era completamente concentrata…
Oddio!
…nel tentativo di rubare qualcosa.
Quel dolcetto. “Strozzantino”… che nome idiota.
Heather lasciò perdere, disponendosi a seguire la scena. Il ragazzo (tredici anni: Heather lo seppe nell’istante stesso in cui desiderò saperlo) aveva nella SmartCash soldi sufficienti per pagarsi la merendina. Si infilò in tasca la mano e palpeggiò la carta, presenza rassicurante immersa nel tepore del suo corpo.
Certo, oggi se lo poteva anche permettere, ma poi domani gli toccava restare a bocca asciutta.
Il negoziante, un indiano il cui accento Heather trovava delizioso mentre al ragazzo sembrava ridicolo, stava alla cassa intento a parlare con un cliente.
Il ragazzo prese lo Strozzantino, gettando rapida un’occhiata di traverso.
Il negoziante era sempre indaffarato.
Il ladruncolo indossava un giubbotto leggero provvisto di grandi tasche. Tenendo stretto lo Strozzantino contro il palmo della mano se lo accostò alla tasca, sollevò la patta, lo fece scivolar dentro. Tirò un sospiro di sollievo, e Heather, coinvolta suo malgrado, con lui. Era andata.
— Giovanotto! — scattò la voce dall’accento strano.
Un’ondata di terrore sommerse il ragazzo, facendo tremare anche Heather.
— Giovanotto! — intimò di nuovo la voce. — Fammi un po’ vedere cos’hai in tasca.
Il ragazzo si bloccò. Pensò per un attimo di darsela a gambe, ma l’indiano, che a lui chissà perché sembrava un asiatico, gli sbarrava ora la strada verso l’uscita, tendendogli una mano a palma in su.
— Niente — tentò il ragazzo.
— Ridammi quel dolcino.
Il ragazzo si arrabattò in cerca di una scappatoia: poteva sempre tentare di filarsela; oppure poteva restituire il maltolto e implorare perdono. Magari spiegando al gestore che se suo padre lo veniva a sapere lo ammazzava di botte.
— Le ho detto che non ho preso niente — arrischiò invece, ingegnandosi di far trasparire tutta l’indignazione che una simile infondata accusa meritava.
— Sei un bugiardo. Ti ho visto. E ti ha visto anche lei — precisò il negoziante, indicando una piccola telecamera piazzata sulla parete.
Il ragazzo chiuse gli occhi. La visione del mondo esterno si oscurò, ma nel suo cervello rimasero a fronteggiarsi due nitide immagini… un uomo e una donna che dovevano essere i suoi genitori, e un amichetto di nome Geoff. Quando li grattava lui, i dolciumi, riusciva sempre a portarseli via.
Heather era affascinata. Anche lei, da ragazzina, aveva fatto la sua sciocca e infelice esperienza di taccheggio, tentando senza successo di sgraffignare un paio di jeans da un negozio d’abbigliamento. Sapeva bene che cosa voleva dire essere colti con le mani nel sacco, non aveva dimenticato la paura e la rabbia che ora invadevano il ragazzo. Avrebbe voluto trattenersi a condividerne in un certo senso la sorte, ma il suo tempo era limitato. Si sarebbe dovuta comunque svincolare fra non molto, per ottemperare alle imprescindibili necessità dell’esistenza; stava già rimpiangendo di non aver compiuto una visitina in bagno prima di rientrare nella struttura.
Fece quindi tabula rasa nella propria mente, ed evocando l’immagine dei cristalli che in forma di precipitato abbandonavano la soluzione, si separò dal ragazzo non diversamente da come aveva fatto con Ideko.
Anche stavolta oscurità. Organizzò i cristalli, ripristinando il proprio senso d’identità. Ed eccola di nuovo di fronte alla parete degli esagoni.
Facile, vero? Ma comunque sbalorditivo, e, doveva ammetterlo, davvero un gran bel divertimento.
D’un tratto le venne da pensare alle potenzialità turistiche di un’esperienza del genere. Il problema, con le simulazioni in realtà virtuale, era tutto lì: che si trattava di simulazioni. Sebbene la Sony, l’Hitachi e la Microsoft avessero investito miliardi per creare tutta un’industria del tempo libero basata sulla realtà virtuale, la cosa non aveva mai veramente attecchito. Perché per quanto si facesse, esisteva comunque una differenza fondamentale fra sciare a Banff e sciare a casa propria senza muoversi dal soggiorno. Parte dell’emozione nasceva dalla possibilità di fratturarti una gamba, parte dell’esperienza andava cercata nella vescica piena che non potevi svuotare tanto facilmente, parte del divertimento consisteva nell’abbronzatura naturale che ti procuravi anche in pieno inverno con una giornata sulle piste.
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