Robert Sawyer - I transumani

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Ascoltare messaggi che vengono dalle stelle è un compito che i radioastronomi eseguono da anni nella speranza che possano arrivarci rivelazioni in grado di cambiare la nostra visione dell’universo. Ed è probabile che un giorno queste comunicazioni arrivino davvero, e che oltre a cambiare tutto ciò che sapevamo di là fuori mettano in discussione ciò che noi stessi siamo (o credevamo di essere). Quando questo avverrà, è probabile che non ci sia più posto per le illusioni dell’homo sapiens. E comincerà la lotta per consentire, o stroncare sul nascere, l’evoluzione di una nuova specie di uomini.

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Il convoglio si avvia con un sobbalzo. Ecco il ronzio dei motori.

Poi il ronzio si affievolisce, respinto ai margini della coscienza per non intralciarla.

Concrete immagini visive, relativamente prive di alterazioni, a parte la limitazione cromatica.

E immagini evocate mentalmente, una surreale galleria di quadri psichici vagheggiati, o a mezzo ricordati, o del tutto fiabeschi.

Molti dei quali non hanno alcun senso, per Heather. Proprio uno sconcertante risultato per una psicologa di fede junghiana: constatare che il relativismo culturale esiste davvero, e che la mente di un uomo giapponese può almeno in parte risultare aliena, per una donna canadese, quanto la mente di una creatura del Centauro.

Eppure…

Eppure quell’uomo apparteneva a pieno titolo al club dell’ Homo sapiens. L’estraneità della sua mente andava imputata più al suo essere giapponese o al suo essere maschio? O si trattava semplicemente della sua unicità, delle specifiche qualità che rendevano questo… questo Ideko (era il suo nome: le si disvelò spontaneamente, con |a levità di una piuma discesa a volo in palmo di mano) un essere umano ben determinato, diverso da ciascuno dei sette miliardi di altri individui esistenti sul pianeta?

Heather aveva sempre creduto di comprendere Kyle e altri uomini, però non era mai stata in Giappone, e di quella lingua non conosceva neppure una parola.

Forse stava tutto nella mancanza di una stele di Rosetta a livello mentale. Forse i pensieri e i timori e i bisogni del signor Ideko erano simili a quelli di Heather, però sottoposti a un codice diverso. Gli archetipi dovevano esserci. Come Champollion aveva riconosciuto il nome Cleopatra in greco e in demotico e in geroglifico, aprendo finalmente la strada alla comprensione dell’antico testo egizio inciso sul famoso blocco di basalto nero, così, sottesi alla specificità di Ideko, bisognava che si annidassero l’archetipo della Madre Terra e quello dell’angelo caduto e quello dell’unità incompleta. Se solo fosse riuscita a scoprire una chiave…

Ma per quanti tentativi mettesse in atto, i pensieri di Jui continuavano in gran parte a rimanerle indecifrabili. Comunque, avesse avuto abbastanza tempo, era certa di poter trovare il bandolo della matassa…

Il convoglio stava entrando in un’altra stazione. Risultava a Heather, per sentito dire, che nel paese del Sol Levante nerboruti inservienti fossero addetti al compito di pigiare la gente dentro le carrozze della metropolitana stipandone quanta più possibile… tuttavia non scorse traccia di un simile procedimento. Forse si trattava solo di un’invenzione, magari addirittura di un archetipo: preconcetti nei confronti del “diverso”.

Nella mente di Ideko rampollò un nuovo pensiero sfacciatamente sessuale. Heather ne rimase sbalordita, tuttavia quel ghiribizzo venne soffocato pressoché all’istante. Altra specificità culturale? Nella sua carriera di pendolare era capitato anche a lei d’ingannare molte lunghe attese sbrigliandosi in oziose fantasticherie… più romantiche che pornografiche, a dire il vero. Ma Ideko rintuzzò sdegnoso quel capriccio passeggero, riconducendosi mentalmente entro le palizzate di un rigido autocontrollo.

Specificità culturale. Nel Vecchio Testamento non è inconsueto che i padri dormano con le proprie figlie.

Si sentì percorrere da un fremito…

,..ma era solo il convoglio che, rabbrividendo, si rimetteva in marcia. Ideko detestava (are il pendolare: chissà che non fosse un archetipo anche quello, un pilastro del moderno inconscio collettivo, una Cleopatra scalpellata nel granito.

Davvero inebriante, questo inserirsi in una mente altrui. Con una sua connotazione sessuale anche a prescindere da pensieri sessualmente espliciti, permeato com’era di voyeurismo.

Entusiasmante e affascinante, sì.

Ma sapeva di doversi distaccare.

Provò una subitanea fitta di tristezza. Ormai conosceva Ideko meglio di quanto conoscesse tante altre persone; aveva visto attraverso i suoi occhi, condiviso i suoi pensieri.

E adesso, dopo questo breve seppur profondo contatto, probabilmente non l’avrebbe incontrato mai più.

Ma bisognava affrettarsi a proseguire.

La verità era lì da qualche parte.

La verità indiscutibile.

La verità non altrimenti dimostrabile.

La verità su Kyle, su Becky, su Mary.

Una verità che Heather doveva trovare.

25

Esaurito l’incontro a tavola con Stone, Kyle aveva tre ore libere prima della lezione successiva. Decise dunque di lasciare l’università e prese la metro fino a North York Centre, penultima fermata sulla linea di Yonge. Uscì dalla stazione, attraversò l’orrore cementizio di Mel Lastman Square e s’incamminò verso Beecroft Avenue, un isolato a ovest di Yonge.

Fra Beecroft lato est e Yonge sorgeva il Centro Ford per le Arti dello Spettacolo. Inaugurato, ricordava Kyle, con Showboat, che aveva fatto lì il suo rodaggio prima di andare a Broadway. Erano passati quasi venticinque anni. Da allora Kyle non aveva perduto neppure una novità, anche se dopo la separazione da Heather non era stato ancora a vedere il successo del momento, il Dracula in versione musical di Andrew Lloyd Webber.

Anche Beecroft lato ovest era fonte di ricordi tenaci. Negli appezzamenti di terreno ancora liberi che esistevano lì al tempo della sua fanciullezza aveva giocato a football col piccolo Jimmy Korematsu, coi gemelli Haskins, e… come si chiamava? Il bulletto con la testa deforme. Ah, già, Calvino. Granché atletico, Kyle non era stato mai. Partecipava al gioco tanto per non rimanere in disparte, ma la sua mente preferiva sempre vagabondare altrove. Una volta che gli era riuscito di acchiappare la palla senza poi lasciarsela sfuggire, aveva corso come un matto per un’ottantina di metri fino a fondo campo… per poi accorgersi d’aver fatto meta dalla parte sbagliata. Aveva pensato che non sarebbe sopravvissuto alla figuraccia.

I campi, grandi il giusto per giocarci a pallone, erano delimitati da zone boschive… legate a ricordi più teneri. Quante volte vi si era inoltrato con Lisa, la fidanzata degli anni di liceo, dopo i film al Willow o le cenette al Crock & Block.

Adesso, al posto dei campi, dilagavano i parcheggi del Centro Ford.

Dietro i quali, però, com’era sempre stato sin da prima della sua nascita, sorgeva uno dei più grandi cimiteri di Toronto, quello di York.

Qualcuno dei suoi compagni di scuola non si faceva scrupolo d’infilarsi lì dentro a pomiciare… lungo il confine nord del cimitero correva una striscia alberata larga una quindicina di metri, per evitare che gli edifici di Park Home Avenue dovessero affacciarsi direttamente sulle tombe… ma Kyle aveva preferito sempre girare al largo.

Entrò nel cimitero seguendo la curva dolce della strada principale. I terreni apparivano tenuti con gran cura. In lontananza, appena prima dell’intersezione con Senlac Road, si scorgeva il gigantesco cenotafio di cemento, simile a un obelisco egizio, innalzato in memoria dei canadesi morti nelle guerre mondiali.

Agili e veloci gli traversarono il cammino un paio di scoiattoli neri, animaletti onnipresenti a Toronto. Una volta, guidando, ne aveva investito uno. In auto c’era anche Mary, avrà avuto quattro o cinque anni. Naturalmente si era trattato di un incidente, ma lei gli aveva tenuto il broncio per settimane. Un vero mostro, quel padre, ai suoi occhi.

E non solo allora, purtroppo.

C’erano fiori su molte tombe, ma non su quella di Mary. Avrebbe voluto farle visite più frequenti. Quand’era morta, aveva preso con se stesso l’impegno di andarla a trovare ogni fine settimana.

Dall’ultima volta erano passati tre mesi.

Ma adesso non sapeva dove altro andare, in quale altro modo parlarle. Lasciò la strada, inoltrandosi sul prato. Passò un uomo alla guida di una sibilante falciatrice. Distolse lo sguardo da Kyle, forse solo per indifferenza, forse per rispetto o l’imbarazzo dell’estraneità. Un lavoro come un altro, per chi c’era abituato, e chissà se dopo un po’ ci si soffermava più a pensare come mai l’erba crescesse così rigogliosa.

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