Robert J. Sawyer
I transumani
Che cos’è la materia? Non dartene pensiero.
Che cos’è il pensiero? Meglio cambiar materia.
THOMAS ΗEWITT KEY (1799–1875) umanista inglese
Per Asbed Bedrossian
che vive lontano da Toronto ormai da vent’anni, dieci volte il tempo trascorso qui… ed è ancora uno dei miei migliori amici.
Dio benedica la posta elettronica!
Ormai da quasi dieci anni giungevano messaggi dallo spazio. La ricezione di una nuova pagina di dati aveva inizio ogni trenta ore e cinquantuno minuti, un intervallo che si riteneva corrispondere alla lunghezza del giorno sul pianeta madre dei Mittenti. Sinora erano stati captati 2841 messaggi.
La Terra non aveva mai risposto a quelle trasmissioni. La Dichiarazione delle Regole di Comportamento in caso di Rilevazione d’Intelligenze Extraterrestri, promulgata nel 1989 dalla Unione Astronomica Internazionale, stabiliva: “Nessuna risposta a segnali o altre manifestazioni d’intelligenza extraterrestre dovrà essere inviata prima che abbiano avuto luogo adeguate consultazioni internazionali”. Con centocinquantasette Stati a fare parte delle Nazioni Unite, le adeguate consultazioni erano tuttora in corso.
Non esisteva alcuna incertezza circa la direzione dalla quale provenivano i messaggi: ascensione retta 14 gradi, 39 minuti, 36 secondi; declinazione negativa 60 gradi, 50 minuti. E il rilevamento parallattico forniva la distanza: 1,34 parsec dalla Terra. Pareva, dunque, che gli alieni responsabili dei messaggi vivessero su un pianeta orbitante attorno alla stella Alpha Centauri A, la più vicina al nostro Sole.
Le prime undici pagine di dati erano state decifrate agevolmente: si trattava di semplici rappresentazioni grafiche di princìpi matematici e fisici, oltre alle formule chimiche di due sostanze apparentemente innocue.
Ma sebbene i messaggi fossero di dominio pubblico, nessuno, in nessun luogo al mondo, era ancora riuscito a dare un senso alle immagini scaturite dalla decodifica delle pagine successive…
Heather Davis bevve un sorso di caffè e guardò l’orologio di ottone sulla mensola del caminetto. Sua figlia Rebecca, diciannove anni, aveva promesso di esser lì per le otto, ed erano già le otto e venti.
Becky non poteva certo ignorare quanto la situazione fosse imbarazzante. Aveva chiesto un incontro coi propri genitori, tutti e due contemporaneamente. Il fatto che Heather Davis e Kyle Graves fossero separati ormai da quasi un anno doveva apparirle trascurabile. Si sarebbero potuti incontrare in un ristorante, e invece no, Heather aveva proposto la casa, quella in cui lei e Kyle avevano allevato Becky e sua sorella maggiore Mary, la stessa casa che Kyle aveva lasciato l’agosto scorso. Ma adesso, col silenzio che si prolungava fra lei e Kyle di minuto in minuto, Heather cominciava a rimpiangere la propria spontanea offerta.
Sebbene non vedesse Becky da quasi quattro mesi, aveva già una mezza idea sulle intenzioni della figlia. Quando si sentivano al telefono, Becky le parlava spesso di Zack, il suo ragazzo. Di sicuro avrebbe annunciato il suo fidanzamento.
Ovviamente Heather avrebbe preferito che sua figlia aspettasse qualche anno ancora, ma d’altra parte non c’era di mezzo l’università, visto che Becky lavorava in un negozio d’abbigliamento sulla Spadina Avenue. Heather e Kyle insegnavano entrambi all’Università di Toronto, lei psicologia, lui informatica. C’erano rimasti male, quando si erano resi conto che Becky non avrebbe proseguito gli studi. Oltretutto, sulla base di un accordo interfacoltà, i figli dei docenti avevano diritto all’esenzione dalle tasse scolastiche. Mary, almeno, ne aveva usufruito per un anno, prima di…
No.
Niente rimpianti, era il momento di festeggiare. Becky stava per sposarsi! Solo questo importava, adesso.
Chissà se era stato Zack a fare la proposta, o se invece l’iniziativa l’aveva presa Becky… Heather ricordava perfettamente quel che le aveva detto Kyle nel chiederla in moglie ventuno anni prima, nel 1996. Le aveva preso la mano, e stringendola forte aveva dichiarato: “Ti amo, e voglio trascorrere il resto della mia vita imparando a conoscerti”.
Heather attendeva seduta in una poltrona superimbottita, mentre Kyle aveva scelto il divano. Si era portato il taccuino elettronico ed era assorto nella lettura. Dati i suoi gusti, probabilmente un romanzo di spionaggio. L’ascesa dell’Iran al rango di superpotenza aveva avuto, per lui, un unico risvolto positivo: una nuova fioritura del thriller internazionale.
Sulla parete color sabbia alle spalle di Kyle campeggiava una stampa fotografica incorniciata appartenente a Heather. Consisteva in una configurazione, casuale all’apparenza, di minuscoli quadratini bianchi e neri: la rappresentazione di uno dei radiomessaggi alieni.
Becky se n’era andata già da nove mesi, subito dopo il diploma, mentre Heather aveva tanto sperato che almeno sua figlia potesse restare ancora un poco a farle compagnia in quella grande casa di periferia, così vuota adesso che Mary e Kyle non c’erano più.
I primi tempi Becky era passata spesso a trovarla, e a sentir Kyle aveva visto anche suo padre con una certa regolarità. Ben presto, però, le visite si erano fatte sempre meno frequenti, sino a cessare del tutto.
Evidentemente Kyle s’era accorto che Heather lo stava osservando. Sollevò lo sguardo dal taccuino elettronico e imbastì un debole sorriso. — Stai tranquilla, tesoro, vedrai che fra poco arriva.
Tesoro. Da undici mesi non vivevano più come marito e moglie, ma i vezzeggiativi di vent’anni sono duri a morire.
Finalmente, poco dopo le otto e mezzo, suonarono alla porta. Heather e Kyle si scambiarono un’occhiata. L’impronta del pollice di Becky era ancora in grado di azionare la serratura… così come, ovviamente, quella di Kyle. Improbabile che a quell’ora potesse capitare qualcun altro: doveva per forza essere Becky. Heather sospirò. Il fatto che Becky non si limitasse semplicemente a entrare enfatizzava i timori di Heather: sua figlia, lì, non si sentiva più a casa.
Heather abbandonò la poltrona, attraversò il soggiorno, scese di sotto, raggiunse la porta d’ingresso, un rapido gesto di entrambe le mani ad accertarsi che i capelli fossero ancora in ordine, quindi girò la maniglia.
Sulla soglia apparve Becky. Volto minuto con zigomi alti, occhi castani, chioma bruna a sfiorare le spalle. Allampanato, biondo e scarruffato le stava accanto il suo ragazzo.
— Ciao, cara — la salutò Heather, e poi, sorridendo al giovanotto, che conosceva appena: — Ciao, Zack.
Becky entrò, e Heather pensò che forse sua figlia avrebbe sostato il tempo sufficiente a darle un bacio, ma la ragazza non lo fece. Zack seguì Becky nell’ingresso, poi tutti e tre salirono in soggiorno, dove Kyle non s’era mosso dal divano.
— Ciao, testolina — disse Kyle alzando lo sguardo. — Salve, Zack.
Sua figlia non lo degnò neppure di un’occhiata. La sua mano cercò quella di Zack, e le loro dita s’intrecciarono.
Heather tornò in poltrona e accennò a Becky e Zack di accomodarsi. Sul divano accanto a Kyle non c’era posto per tutti e due. Becky scelse un’altra poltrona e Zack le rimase accanto in piedi, tenendole una mano sulla spalla sinistra.
— Che piacere, cara, rivederti… — esordì Heather. Poi, accorgendosi che stava per fare un commento su quanto tempo fosse passato dall’ultima volta, richiuse la bocca e tacque.
Becky si volse a guardare Zack. Il labbro inferiore le tremava visibilmente.
— Cara, cosa c’è che non va? — domandò Heather, turbata da quel contegno. Se non era un annuncio di fidanzamento, allora di che si trattava? Forse una malattia? Guai con la polizia? Vide Kyle protendersi leggermente in avanti; anche lui aveva avvertito l’inquietudine di sua figlia.
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