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Robert Sawyer: I transumani

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Robert Sawyer I transumani

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Ascoltare messaggi che vengono dalle stelle è un compito che i radioastronomi eseguono da anni nella speranza che possano arrivarci rivelazioni in grado di cambiare la nostra visione dell’universo. Ed è probabile che un giorno queste comunicazioni arrivino davvero, e che oltre a cambiare tutto ciò che sapevamo di là fuori mettano in discussione ciò che noi stessi siamo (o credevamo di essere). Quando questo avverrà, è probabile che non ci sia più posto per le illusioni dell’homo sapiens. E comincerà la lotta per consentire, o stroncare sul nascere, l’evoluzione di una nuova specie di uomini.

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— Attivazione obbligo riservatezza — ordinò. — Non dovrai riferire ad alcuno la seguente conversazione, né compiere indagini in relazione a essa. Capito?

— Sì — rispose Cita. Rimasero entrambi in silenzio. Infine Cita lo sollecitò. — Qual è l’argomento della conversazione?

Kyle si domandò dove incominciare. Al diavolo, non era nemmeno sicuro del perché volesse farlo. Ma certo non poteva parlarne con nessun altro… non poteva rischiare che nascessero pettegolezzi. Ricordava bene quello che, cinque anni prima, era successo a Stone Bentley, dell’istituto di Antropologia: accusato di molestie sessuali da una studentessa; assolto con formula piena dal tribunale; la studentessa, alla fine, aveva addirittura ritirato l’accusa. Ciò nonostante, Bentley aveva perso la nomina a vicepreside e ogni tanto a Kyle capitava ancora di cogliere al volo, da studenti e professori, qualche battuta in merito. No, non si sarebbe esposto a un simile calvario.

— Nulla d’importante, davvero — tentò Kyle. Il caffè era pronto. Senza troppo entusiasmo, traversò la stanza e andò a versarsene una tazza.

— No, per favore — insisté Cita. — Mi dica.

Kyle si concesse un esile sorriso. Sapeva bene che Cita non era davvero curioso. Era stato lui stesso a programmare l’algoritmo che simulava la curiosità: quando una persona si mostra riluttante a proseguire, bisogna insistere.

Comunque aveva realmente bisogno di parlarne a qualcuno. Già trovava difficoltà a prendere sonno, senza che ora ci si mettesse anche questo peso.

— Mia figlia è infuriata con me.

— Rebecca — aggiunse Cita. Altro algoritmo: per stimolare la confidenza, creare un clima di familiarità.

— Rebecca, sì. Lei dice… sostiene… — La voce gli venne meno.

— Cosa? — Il timbro nasale fece sembrare il tono di Cita ancor più insistente.

— Che l’ho molestata.

— In che modo?

Kyle sospirò stizzito. Nessun essere umano avrebbe avuto bisogno di fare una simile domanda. Dio, che situazione idiota…

— In che modo? — ripeté Cita, senza dubbio allorché, dal suo orologio interno, seppe giunto il momento di insistere.

— Sessualmente — rispose Kyle con un filo di voce.

Il microfono sul quadro comandi era assai sensibile: Cita aveva udito senz’altro, tuttavia simulò, come da programma, qualche secondo di esitazione. — Oh — disse infine.

Le luci ammiccanti sul quadro avvertirono Kyle che Cita stava rapidamente percorrendo il Web alla ricerca d’informazioni sull’argomento.

— Non devi dirlo a nessuno — ribadì Kyle bruscamente.

— Capisco — disse Cita. — Lei ha commesso il fatto di cui è accusato?

Kyle sentì la collera montargli dentro. — No, naturalmente.

— Può dimostrarlo?

— Che razza di domanda sarebbe?

— Una domanda fondamentale — rispose Cita. — Suppongo che Rebecca non abbia alcuna vera prova della sua colpevolezza.

— Ovviamente no.

— Ed è probabile che lei non abbia alcuna prova della propria innocenza.

— Be’, no.

— Allora è la sua parola contro quella di Rebecca.

— Un uomo è innocente finché non si dimostri che è colpevole — protestò Kyle.

Dal quadro comandi scaturirono le prime quattro note della Quinta di Beethoven. Nessuno si era ancora preso la briga di programmare per Cita una risata vera e propria… il suo approssimativo senso dell’umorismo non rendeva certo la cosa impellente… e quel brano famoso fungeva da momentaneo surrogato.

— Chi sarebbe l’ingenuo fra noi due, dottor Graves? Se lei non è colpevole, perché mai sua figlia avrebbe dovuto accusarla?

Kyle non seppe che cosa rispondere. Cita attese il tempo previsto, poi tornò alla carica: — Se lei non è colpevole, perché mai…

— Basta così, taci! — troncò Kyle.

3

Grazie a Dio, durante la sessione estiva Heather non aveva corsi da tenere. Dopo la visita di Becky si era agitata e rigirata tutta la notte, tanto da non riuscire ad alzarsi fino alle undici.

Come fa uno a tirare avanti dopo una batosta del genere, continuava a domandarsi.

Mary era morta da sedici mesi.

No, si corresse Heather. No. Affrontiamo la realtà. Mary si era suicidata sedici mesi prima. Non avevano mai capito perché. All’epoca Becky viveva ancora con loro. Era stata lei a trovare il corpo di sua sorella.

Come fa uno a tirare avanti?

Che s’inventa, dopo?

L’anno in cui Becky era nata, Bill Cosby aveva perso suo figlio Ennis. Heather, con una neonata ancora al seno e una irrefrenabile bricconcella di due anni in giro per casa, si era sentita in dovere di scrivere un biglietto a Cosby, presso la CBS, per esprimergli la propria solidarietà. In qualità di madre, si rendeva conto che nulla può essere più sconvolgente della perdita di un figlio.

In qualche modo, Bill Cosby aveva tirato avanti.

Nello stesso periodo, ogni sera le cronache si occupavano anche di un altro genitore: Fred Goldman, padre di Ron Goldman, l’uomo trovato ucciso accanto a Nicole Brown Simpson. Fred era furibondo contro O.J. Simpson, nella convinzione che fosse stato lui ad assassinare suo figlio. La collera di Fred, manifesta e implacabile, si riversava come un uragano dai canali televisivi. La famiglia Goldman aveva pubblicato un libro, His Name is Ron, e in occasione dell’incontro col pubblico alla libreria Chapters, Heather si era presentata, al pari di tanti altri, per farsi autografare la sua copia. Anche se sapeva che il volume, non diversamente da tutta l’altra paccottiglia legata al caso Simpson, sarebbe stato svenduto come carta da macero entro pochi mesi, aveva voluto manifestare così il proprio sostegno, da genitore a genitore.

In qualche modo, Fred Goldman aveva tirato avanti.

Quando Mary si era uccisa, Heather era andata a vedere se fra i libri di casa ci fosse ancora quello di Goldman. In effetti l’aveva trovato su uno scaffale del soggiorno vicino ad Alias Grace di Margaret Atwood, un altro rilegato per cui Heather aveva rosicchiato all’epoca il bilancio familiare. Tirato giù il volume, Heather si era messa a sfogliarlo. In diverse foto compariva anche Fred, ma erano tutte liete immagini di famiglia, nulla a che vedere col volto inferocito che le era rimasto in mente, acceso di un’ira sconfinata contro Simpson.

Quando un tuo figlio si toglie la vita, in quale direzione incanali la tua collera? Verso chi la indirizzi?

La risposta è: nessuno. Te la tieni tutta dentro, e quella ti divora dall’interno, un morso dopo l’altro, giorno dopo giorno.

Ma la risposta è anche: tutti. E ti metti a menar colpi all’impazzata, a tuo marito, agli altri figli, ai colleghi di lavoro.

Oh, sì, tiri avanti. Ma non sei più la stessa. Adesso, però…

Adesso, se Becky aveva detto Ja verità… Se Becky aveva detto la verità, c’era qualcuno contro cui rivolgere la sua rabbia.

Kyle. Il padre di Becky. Quell’estraneo che era ancora suo marito.

Mentre camminava in direzione sud lungo St. George Street, le venne in mente il radiomessaggio alieno incorniciato sulla parete del soggiorno. Heather era una psicologa; aveva trascorso gli ultimi dieci anni nel tentativo di decifrare i messaggi, di sondare la mente aliena che li aveva generati. Quel particolare messaggio, anzi, l’aveva studiato meglio di chiunque altro al mondo, su di esso aveva anche pubblicato due monografie, eppure non aveva ancora idea di che cosa volesse effettivamente significare: in realtà, non lo conosceva affatto. Heather conosceva Kyle da più di vent’anni. Ma lo conosceva davvero?

Cercò di snebbiarsi le idee, di relegare in un angolo la violenta emozione della sera prima.

Un sole radioso rischiarava il pomeriggio. Socchiudendo gli occhi, s’interrogò per l’ennesima volta sugli alieni che inviavano quei messaggi. Se non altro, una luce come quella era qualcosa che gli umani dovevano avere in comune coi Centauri… nessuno, ovviamente, conosceva l’aspetto degli alieni, ma i disegnatori satirici avevano preso a raffigurarli come gli omonimi personaggi della mitologia greca. La stella Alpha Centauri A è quasi gemella del Sole terrestre: appartengono entrambi alla classe spettrale G2V, hanno tutt’e due una temperatura di 5800 gradi Kelvin… si poteva quindi ragionevolmente dedurre che sia l’una sia l’altro illuminassero i rispettivi pianeti con la medesima luce giallobianca. Certo, Alpha Centauri B, più piccola e più fredda, avrebbe potuto aggiungere una sfumatura arancione, quand’era anche lei visibile in cielo… ma negli intervalli in cui fosse stata presente solo la stella A, Centauri e umani avrebbero volto lo sguardo su paesaggi identicamente illuminati.

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