— Be’, come dici tu, nessuno guarda più gli stessi programmi.
Stone approvò con un grugnito. — A ogni modo, il problema è stato risolto. Non è mai esistita una roba come l’Homo sapiens neanderthalensis. Nel senso che l’uomo di Neandertal non era una sottospecie della stessa specie cui apparteniamo noi, bensì qualcos’altro. Homo neanderthalensis, una specie completamente diversa. Diciamo che forse, e sottolineo forse, un umano e un Neandertal avrebbero potuto generare un figlio, ma il frutto della loro unione sarebbe stato quasi certamente sterile, come un mulo.
— No — continuò Stone — è un ragionamento superficiale… sostenere che solo perché uno ha le arcate sopracciliari sporgenti allora deve anche avere sangue neandertal. Le creste sopracciliari rientrano fra le normali variazioni possibili per l’Homo sapiens, come il colore degli occhi o l’entità della membrana interdigitale fra il pollice e l’indice. Se si considerano elementi più caratteristici dell’anatomia neandertal, tipo la cavità nasale con le sue escrescenze triangolari, o l’attaccatura fra muscoli e arti, o anche la totale mancanza di mento, la differenza fra loro e gli umani moderni risulta evidente. — Bevve un sorso di birra. — I Neandertal sono completamente estinti. Furono signori del creato per forse centomila anni, ma noi li abbiamo soppiantati.
— Comunque è un peccato — commentò Kyle. — Mi è sempre piaciuta l’idea che invece li avessimo incorporati.
— Solo che la cosa non funziona così. Certo, all’interno della stessa specie a volte accade; entro la fine del secolo su questo pianeta ci sarà più gente di razza mista che gente di razza pura. Ma nella maggior parte dei casi non abbiamo un pacifico passaggio del testimone, il passato non finisce incorporato nel presente e chi c’era prima viene semplicemente spazzato via da chi arriva dopo.
A Kyle vennero in mente i mendicanti di Queen Street. — Fra i tuoi studenti ce l’hai qualche nativo canadese?
Stone scosse la testa. — Neanche uno. Non più.
— Nemmeno io. E anche nel corpo insegnante non credo che ci siano autoctoni, vero?
— Che io sappia no.
— Neppure a tradizioni popolari? Stone fece nuovamente di no.
Kyle bevve un goccio. — Forse hai ragione tu.
— Ho ragione di sicuro — precisò Stone. — Naturalmente di aborigeni ne esistono ancora, ma sono estremamente emarginati. Per decenni hanno avuto il maggior tasso di suicidi, di alcolismo, di povertà, di mortalità infantile e disoccupazione rispetto a ogni altro gruppo demografico dell’intero paese.
— Ricordo comunque che una ventina d’anni fa, quando venivo a studiare qui, ai corsi c’erano anche un po’ di indigeni.
— Come no. Ma era per via di certi stanziamenti statali, e né Ottawa né le province spendono più soldi in programmi del genere se non c’è la prospettiva di cavarne un mucchio di voti… e temo che non sia questo il caso. Ma lo sai che in Canada ormai ci sono più ucraini che nativi? E comunque i programmi statali di quel genere non hanno mai avuto successo. Anni fa ho svolto qualche incarico per il Ministero degli Affari Indiani, prima che lo abolissero, e ti posso assicurare che gli indigeni non la vogliono, la nostra cultura. Quanto a noi, non appena deciso che la loro cultura era estranea al nostro modo di vivere, abbiamo smesso di dar retta alle loro pretese territoriali e adesso stiamo semplicemente aspettando che si estinguano. La verità è che noi europei abbiamo preso il sopravvento e ci siamo accaparrati in blocco il Nordamerica strappandolo agli indigeni.
Kyle rifletté un istante, poi disse la sua: — Be’, meno male che nessuno sta per prendere il sopravvento su di noi.
Stone mandò giù una sorsata. — Aspetta che gli alieni di tua moglie arrivino sulla Terra, poi ne riparliamo — sentenziò, terribilmente serio.
Che sballo! Spettacoloso e palpitante, come l’acido che aveva provato, insieme a tante altre cose, i primi tempi dopo il suo arrivo nella grande città.
Un’altra mente umana!
Era sconcertante, inebriante, terrificante, elettrizzante.
Cercò di dominare eccitazione e sconcerto, facendo appello alla razionalità.
Ma l’altro era così… alieno!
Anche perché si trattava di un maschio. La mente di un uomo.
Ma la stranezza non stava tutta lì.
Le immagini non apparivano dei colori giusti. Tutti marroni e gialli e grigi e…
Ah, già, è vero. Bob, un cugino di Heather, aveva lo stesso problema. Quell’uomo, chiunque fosse, doveva essere daltonico.
Comunque c’era anche qualcos’altro che non quadrava. Heather riusciva a… “udire” (termine improprio, a rigore, ma che rende l’idea) i suoi pensieri, un ruminìo silenzioso, una voce senza fiato, un suono senza vibrazione, parole che ruzzolavano a destra e a manca come dadi gettati alla rinfusa.
Ma le giungevano prive di significato, incomprensibili…
Perché non erano in inglese.
Heather si concentrò nel tentativo di cavarne un senso. Nessun dubbio che fossero parole, ma senza sonorità né accenti era difficile stabilire a che lingua appartenessero.
Vocali. Consonanti.
Anzi, no. Consonanti, poi vocali, sempre in alternanza. I gruppi consonantici sembravano assenti.
Gran parte del giapponese è congegnato così.
Esatto. Una persona che parlava giapponese. Che pensava giapponese.
Già, perché no? Soltanto settecentocinquanta milioni di persone, più o meno, parlavano (e pensavano) inglese la maggior parte del tempo. Americani, canadesi, inglesi, australiani, un piccolo numero di popolazioni minori. Certo, mezzo mondo masticava un po’ d’inglese, ma come lingua madre apparteneva solo a un decimo del totale.
Che fare? Riprovare? Scollegarsi? Scegliere un altro appiglio sulla muraglia dell’umanità?
Sì, ma aspetta, non ancora.
Era un’esperienza assolutamente affascinante.
Essere in contatto con una mente umana.
Chissà se quell’uomo se ne rendeva conto? A ogni modo, non ne dava segno.
Immagini vacillanti si formavano per un secondo scomparendo subito dopo.
Venivano e svanivano così rapidamente che Heather non riusciva a discernerle tutte. Molle apparivano distorte. Vide la faccia di un uomo, un asiatico, ma le proporzioni erano sbagliate: labbra, naso e occhi giganteggiavano, mentre il resto del volto si sfaldava nell’oscurità. Stava forse cercando di ricordare qualcuno? In certi punti il dettaglio era sbalorditivo: i pori del naso, la peluria nera (non proprio baffi, ma neppure abbastanza da giustificare l’intervento del rasoio) sopra il labbro superiore, gli occhi iniettati di sangue. Altre zone apparivano invece appena abbozzate: come le orecchie, due grumi di creta sporgenti informi ai lati del capo.
Nuove immagini. Notte, una strada affollata, luci al neon dappertutto. Un gatto bianco e nero. Una donna, asiatica, giovane, carina… e all’improvviso nuda, evidentemente spogliata dall’immaginazione dell’uomo. Di nuovo la sconcertante distorsione, mentre alcuni elementi si danno rapidamente il cambio al centro dell’attenzione: mammelle di alabastro gonfie come palloni, con strani capezzoli color giallo-grigio causa il difetto di percezione cromatica; genitali che ingigantiscono a riempire il campo visivo, quasi volessero divorare l’osservatore.
E, incredibilmente, anche le emozioni di lui: desiderio sessuale per una donna… un impulso che a dire il vero Heather stessa ha forse provato una o due volte, mai però assolutamente con quella intensità.
Scomparsa la donna, ecco subentrare un’affollata metropolitana tappezzata di scritte in kanji. E un fiume di parole… sì, “parole”, linguaggio parlato. L’uomo sta ascoltando qualcosa. Anzi, no, sta “origliando”, aguzza le orecchie per seguire una conversazione di nascosto, cercando di mantenersi impassibile per non darlo a vedere.
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