Col cuore che le batteva all’impazzata, Heather lasciò cadere la borsetta sul tappeto e si precipitò a prestare soccorso. Uno dei pannelli aveva perso una dozzina di tessere nel punto in cui aveva urtato il pavimento. Meno male che Paul aveva avuto l’accortezza di numerarle. Innanzitutto si dedicò immediatamente a riagganciarle al loro posto, poi cercò di rimettere in piedi la struttura. Si sfasciò di nuovo. Non era facile far stare insieme tutti i pezzi, ma alla fine ci riuscì. Traversò la stanza in punta di piedi per timore d’innescare un nuovo crollo. Reinserì con mosse maldestre le spine nelle prese, suscitando le proteste dello stabilizzatore del suo computer. Poi, finalmente, osservò con sollievo e meraviglia la struttura ricompattarsi visibilmente, mentre tutti gli angoli tornavano in squadra.
Gettò un’occhiata all’orologio. Alle due era in programma una riunione d’istituto… non che in piena estate ci fosse molta gente disponibile, ma proprio per questo la sua assenza avrebbe dato ancor più nell’occhio.
Era impaziente di continuare l’esplorazione. Scrisse col pennarello due biglietti, pregando quelli delle pulizie di astenersi dallo spengere le lampade. Attaccò il primo su uno dei treppiedi, abbastanza in basso perché non rischiasse di prender fuoco, e l’altro accanto alle prese cui i riflettori erano collegati.
Certo che dopo solo pochi minuti lì dentro ne faceva di caldo: era già tutta sudata. Chiuse la porta a chiave e con un pizzico d’imbarazzo si tolse camicetta e pantaloni, rimanendo in reggiseno e mutandine. Quindi sganciò la porta cubica, salì a rannicchiarsi dentro la cavità e, afferrata la ventosa, ripiazzò il cubo al suo posto. Infine, non appena i suoi occhi si furono abituati alla semioscurità, tese la mano e premette il pulsante di avvio.
Il cuore le batteva svelto svelto. Provava la stessa euforia, lo stesso sgomento del giorno innanzi.
Ma fu sollevata nel constatare che la sua supposizione aveva colto nel segno: si trovò infatti a fluttuare esattamente dov’era giunta la volta prima, presso l’immensa concavità ricolma di esagoni. Se quello fosse effettivamente il loro aspetto, ovvero un’apparenza creata dalla sua mente, Heather non aveva modo di saperlo.
Bizzarro finché si voglia, tutto ciò sembrava troppo reale per esser dovuto semplicemente a impulsi piezoelettrici che le scombiccheravano il cervello. Comunque, in qualità di psicologa, Heather sapeva bene che le allucinazioni appaiono spesso straordinariamente reali… anzi, talvolta addirittura iperreali, tanto da far sembrare opaco e insignificante, in confronto, il mondo oggettivo.
Guardò con più attenzione gli esagoni, ciascuno dei quali presentava una larghezza apparente di un paio di metri. L’unica formazione naturale che, a sua conoscenza, fosse costituita da una gran quantità di esagoni strettamente raggruppati, era il nido d’api.
No, aspetta. Le venne in mente un’altra immagine. Le Scogliere dei Giganti, nell’Irlanda del nord: un’ampia distesa di colonne basaltiche di forma esagonale.
Insomma: api oppure lava? In entrambi i casi, una rivincita dell’ordine sul caos… e tale disposizione regolare di strutture a sei lati era la cosa più ordinata che avesse finora incontrato in questi luoghi.
Gli esagoni non ricoprivano l’intera superficie interna della sfera: c’erano ampi tratti ove non se ne scorgeva traccia. Ciò nonostante dovevano esservene milioni, forse miliardi.
D’un tratto l’immagine mutò spontaneamente prospettiva, traslando con oscillazione di Necker a una diversa configurazione: quella di ieri, quella con due sfere, una delle quali vicinissima adesso, e l’altra immensamente lontana. Sullo sfondo era ricomparso il maelstrom… che, stavolta Heather se ne accorse, mostrava il medesimo amalgama cromatico degli esagoni. Forzò la vista fuori fuoco e immediatamente le si ripropose l’enorme parete di esagoni.
Se esagoni e maelstrom costituivano davvero due aspetti di uno stesso fenomeno, inquadrato però entro differenti strutture dimensionali, allora era probabile che molta energia fosse vincolata agli esagoni. Ma che cosa rappresentava ciascun esagono?
Mentre osservava, uno degli esagoni dinanzi a lei si oscurò all’improvviso, facendosi del nero più profondo che avesse mai veduto. Nessunissima luce sembrava riflettervisi, tanto che alla prima lo credette svanito nel nulla. Adeguandosi poi i suoi occhi all’ebano assoluto della superficie esagonale, constatò che era ancora lì.
Heather scrutò attorno per vedere se le riusciva di trovare qualche altro esagono mancante. In breve ne individuò un paio, però non avrebbe saputo dire se fossero appena divenuti neri o si trovassero in quella condizione già da tempo.
Il cambiamento di colore le fece venire in mente che potesse trattarsi di pixel, ma quando aveva sorvolato quel paesaggio a grande altezza nessuna immagine si era resa percepibile.
Continuò a librarsi sulla distesa di esagoni, passando su isole di vuoto dove non c’erano esagoni di nessun genere, colorati o neri che fossero, solo un argenteo nulla.
Sul margine di una di tali aree (una pozza di mercurio, pensò) Heather assisté alla formazione di un esagono. Cominciò come un punto e si espanse rapidamente verso l’esterno sino a colmare lo spazio disponibile, andando a confinare su tre lati con altrettanti esagoni, e su altri tre con l’abisso d’argento.
Che cosa potevano essere gli esagoni?
Li aveva visti nascere.
E li aveva visti morire.
Ma quanti ce ne saranno stati di quei maledetti affari?
Nascere.
Morire.
Nascere.
Morire.
Un’idea pazzesca le balenò in mente… diciamo pure quel genere di idea che è più probabile possa folgorare una psicologa junghiana piuttosto che una persona qualunque, ma a ogni modo un’idea pazzesca.
Non poteva essere.
Eppure…
Se aveva ragione, avrebbe potuto dire con esattezza quanti fossero gli esagoni attivi.
Il loro numero non era incalcolabile. Qui non si trattava di uno di quegli irresolubili problemi di cui aveva parlato Kyle. Non ci si trovava in presenza d’infiniti tasselli coi quali coprire un piano infinito.
No, il loro numero era conoscibile.
Il cuore le batteva all’impazzata.
Era stato solo un lampo d’intuizione, ma si sentiva nelle ossa di aver colto nel segno. Doveva essere qualcosa come… si sforzò di ricordare la quantità. Sette miliardi e quattrocento milioni.
Più o meno.
Sette miliardi e quattrocento milioni: l’intera popolazione umana del pianeta Terra.
Jung reso concreto; realtà, non metafora.
L’inconscio collettivo.
La coscienza collettiva.
La supermente.
Si sentì percorrere da un’ondata di entusiasmo. Quadrava perfettamente. Sì, quel che si rivelava al suo sguardo era organico, ma appartenente a un ambito biologico inaudito, e su scala ben più vasta di quanto si sarebbe mai azzardata a immaginare.
L’aveva sempre saputo, dentro di sé, che il manufatto non l’aveva portata da nessuna parte. Era ancora nel suo ufficio, al secondo piano di Sid Smith.
Ciò che stava facendo consisteva nel guardare attraverso una lente distorta, un microscopio di Möbius, un telescopio topologico.
Un iperscopio.
E l’iperscopio le consentiva di vedere la realtà quadridimensionale che circondava il mondo di tutti i giorni: una realtà negata finora ai suoi sensi analogamente a come il Quadrato protagonista di Flatlandia aveva ignorato l’esistenza di un mondo tridimensionale tutt’intorno a lui.
Jung l’aveva metaforicamente prospettato molto tempo prima, ma non vi aveva mai pensato in termini fisici. Se davvero l’inconscio collettivo era più di una semplice metafora, allora avrebbe proprio dovuto offrire un aspetto del genere: le apparentemente eterogenee componenti dell’umanità interconnesse a un livello fenomenico di ordine superiore.
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