— Ah — commentò Heather imitando suo marito. — Il famoso IES.
Lui sorrise. — Un IES è un impegno di esclusività e segretezza. Probabilmente dovrei sottoscrivere un contratto con penali molto severe, vincolandomi a non divulgare il contenuto del messaggio, o persino rendere nota la sua esistenza.
— Hmm. Cosa pensi di fare?
Kyle allargò le braccia. — Mi viene in mente quella vecchia scenetta dei Monty Python su una storiella così divertente che a sentirla si muore letteralmente dalle risate. La usano gli alleati come arma durante la Seconda guerra mondiale. C’è una squadra incaricata di tradurla dall’inglese in tedesco e ogni persona traduce una sola parola alla volta. Uno di loro vede per caso due parole e finisce in rianimazione… Non so che dirti. Se qualcuno ti desse una barzelletta avvertendoti che è divertente fino a quel punto, non ti verrebbe voglia di controllare di persona? Insomma, anche se Huneker si è ucciso dopo averlo letto, voglio sapere anch’io che cosa c’è nel messaggio alieno.
— Però potrebbe anche essere indecifrabile, proprio come i messaggi dei Centauri. Pur supponendo di riuscire a calcolare i fattori primi, ciò non vuol dire che il messaggio poi risulti comprensibile. In altre parole, nonostante quel che ho detto poco fa, è del tutto plausibile che Josh si sia ucciso per motivi personali e che il messaggio non c’entri un bel nulla.
— Può darsi — convenne Kyle. — Ma può anche darsi che il messaggio contenga un qualche pittogramma che per pura combinazione aveva un significato particolare proprio per Huneker. — Levò un pollice a indicare il Dalí. — Magari da piccolo in chiesa aveva svuotato la cassetta delle elemosine e il pittogramma per uno scherzo del destino gli ha ricordato Cristo in croce o una cosa del genere. E gli ha dato di volta il cervello.
— Nel qual caso, un ateo convinto come te risulterebbe immune.
Kyle scrollò le spalle.
— Forse dovresti davvero accettare — ripeté Heather. Poi, smorzando la voce: — Dopotutto, se Becky…
Kyle annuì. — Se Becky mi trascina in tribunale e finisco sul lastrico, mi farebbe proprio comodo una sostanziosa fonte di reddito… diciamo non ufficiale.
Heather tacque per qualche istante. — Ora devo andare — disse poi.
Kyle si alzò. — Grazie per essere passata.
Con un debole sorriso Heather se ne andò.
Tornato alla sua sedia, Kyle indugiò a riflettere. Era minimamente concepibile che qualcuno potesse mai rivelargli qualcosa capace di spingerlo al suicidio?
No. Naturalmente no.
A meno che…
Rabbrividì.
C’era, sì, una rivelazione in grado veramente d’indurlo a togliersi la vita, così come il povero Josh Huneker aveva fatto, tanti anni prima, lassù, nel bel mezzo del nulla.
La prova che era lui, e non sua figlia, ad avere falsi ricordi di quanto era davvero accaduto durante l’infanzia di Becky.
Heather tornò al laboratorio di Paul Komensky nel tardo pomeriggio del giorno successivo. Il minirobot stava ancora dandosi da fare, comunque aveva esaurito gran parte del terzo e ultimo foglio di substrato. — Questione di pochi minuti — dichiarò Paul andandole incontro.
— Benissimo. — A Heather venne in mente di aver sentito dire che quanto ai tempi di consegna mai fidarsi delle promesse di un ingegnere…
Come a voler dimostrare che non era poi così in ritardo, Paul accennò ai due capaci contenitori, che in effetti erano quasi pieni di piccoli pezzi rettangolari di substrato verniciato.
Heather si avvicinò ai contenitori e prese le prime due formelle che le capitarono a tiro. Le incastrò insieme, constatando che l’aggancio era perfetto.
L’automa emise un insistente pigolio elettronico. Girandosi, Heather vide che gli intralciava il passo e si scansò. La macchinetta raggiunse il secondo contenitore, vi depositò una formella, poi cinguettò una diversa serie di segnali e si fermò.
— Fatto — annunciò Paul.
Heather provò a sollevare uno dei contenitori. Doveva pesare oltre venti chili.
— Avrà bisogno di una mano, per portare questa roba al suo ufficio — si offrì Paul.
Un aiuto le avrebbe fatto comodo, in effetti, ma non voleva approfittare più di tanto. O, per dirla chiaramente, si era già indebitata abbastanza. Il giorno innanzi era stata bene, in compagnia di Paul, ma poi ripensandoci non le era parso di aver fatto la cosa giusta… e ormai era quasi ora di cena: lui probabilmente non si sarebbe accontentato di farle da facchino attraverso il campus.
— No, grazie, mi arrangio da me.
Le sembrò che Paul ci fosse rimasto male, ma non gli mancava senz’altro la capacità d’interpretare correttamente certi segnali; chi non ci riesce non sopravvive a lungo, nell’ambiente universitario… nonostante l’episodio di quel tizio ad Antropologia, Bentley, Bailey, o comunque si chiamasse.
Però subito dopo Heather tornò a considerare i due contenitori; le sarebbe venuto un colpo se avesse tentato di portarli a Sid Smith con quel caldo. Bisognava che si rassegnasse a farsi aiutare.
— D’altronde…
Il viso di Paul s’illuminò.
— Ma sì, via, un paio di braccia in più non guasteranno.
Paul alzò un dito a significare che tornava all’istante. Uscì dal laboratorio e ricomparve in men che non si dica spingendosi dinanzi con qualche impaccio, uno a destra e uno a sinistra, un paio di carrelli a mano indisciplinati che sembrava volessero andarsene ciascuno per conto proprio. Heather gli si fece incontro, e le loro mani si sfiorarono nel momento in cui lei afferrò per i manici uno degli attrezzi.
— Grazie — gli disse.
Paul sorrise. — Lo faccio volentieri, davvero. — Guidò il proprio carrello sino a spingerne il pianale sotto uno dei contenitori, poi inclinò l’arnese all’indietro, dimodoché il recipiente andò a poggiarsi contro la rossa intelaiatura metallica. Heather eseguì la stessa manovra con l’altro contenitore.
Paul sollevò di nuovo quel suo dito così espressivo. — Le servirà anche una discreta scorta di morsetti e fermagli, se vuole collegare i riquadri per ottenere dei cubi. — Prese un terzo recipiente, che evidentemente aveva già pronto, e l’impilò sul primo occupante del suo carrello.
— Dentro ci sono anche un paio d’impugnature per vetro. — Aprì il contenitore e ne tirò fuori una. Era un aggeggio a ventosa provvisto di manico nero. — Visti mai affari del genere? Servono a maneggiare le lastre di vetro, ma le potranno tornare utili per manovrare i suoi riquadri, una volta assemblati.
— Non ho parole — commentò Heather.
— Lei sa, naturalmente, che un vero tesseratto possiede solo ventiquattro facce.
— Cosa? — trasecolò Heather. Maledizione, non poteva aver commesso un errore così grossolano. — Ma Kyle ha detto…
— Be’, quando è sviluppato mostra in effetti quarantotto facce, ma una volta richiuso, ogni faccia ne tocca un’altra, quindi ne rimangono solo ventiquattro. Quella di base va a toccare quella in cima, i cubi laterali si ripiegano verso l’interno, e così via. Anche se, evidentemente, non esiste alcun modo di richiuderlo, in realtà. — Una pausa. — Vogliamo andare?
Heather annuì. Lasciarono quindi il laboratorio, spingendo i carrelli innanzi a sé.
Appena giunti in ufficio, si disse Heather, avrebbe potuto limitarsi a ringraziare Paul e salutarlo, tuttavia…
Duemilaottocento tessere, mica scherzi! A collegarle da sola ci avrebbe messo un’eternità.
Forse Paul sarebbe stato disposto ad aiutarla e…
No, no. Non glielo poteva chiedere, non poteva trascorrere tutto quel tempo insieme a lui. Prima doveva risolvere la questione con Kyle. Però…
Come avrebbe fatto, a risolverla? Come avrebbe fatto a essere certa della sua innocenza? E se non acquisiva quella certezza, avrebbe dovuto far violenza a se stessa ogni volta che le mani di Kyle fossero tornate a toccare il suo corpo?
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