— Buon giorno, Heather. Sono Paul Komensky, del Laboratorio Costruzioni.
— Salve, Paul.
— Che piacere sentire la sua voce.
— Ah, grazie, anche per me.
Silenzio, poi: — Ecco, avrei pronte quelle sostanze che mi aveva chiesto di sintetizzare.
— Splendido! Grazie.
— Allora… il substrato non è niente di speciale, praticamente una specie di polistirene. Quanto all’altra sostanza, be’, avevo ragione. A temperatura ambiente in effetti è liquida, però si asciuga rapidamente lasciando una sottile pellicola cristallina.
— Meglio così.
— Ed è piezoelettrica.
— Piezo… cosa?
— Piezoelettrica. Vuol dire che quando viene sottoposta a pressione genera elettricità.
— Davvero?
— Non molta, ma un poco sì. —· Affascinante.
— A dire il vero non è una cosa tanto inconsueta. Si verifica spesso in vari minerali. Però non me l’aspettavo. I cristalli prodotti dall’essiccazione della sostanza sono simili in pratica a quelli che definiamo cristalli ferroelettrici rilassazionali. Si tratta di un genere particolare di cristalli piezoelettrici, che possono deformarsi dieci volte più di quelli normali.
— Piezoelettrico — ripeté Heather fra sé. Con la punta del dito scrisse il termine sul digimemo. — Devo averne letto da qualche parte, anche se al momento non saprei dire dove. A ogni modo, adesso può iniziare la preparazione delle tessere?
— Senza dubbio.
— Quanto ci vorrà?
— Per l’intero procedimento? All’incirca un giorno.
— C’è altro?
— Per il momento no.
— Allora pensa d’incominciare subito?
— Certamente. — Una pausa. — Ma perché non fa un salto qui da me? Voglio illustrarle tutto il marchingegno e assicurarmi che sia in grado di realizzare esattamente quello che vuole lei. Poi diamo il via alla produzione e magari nel frattempo ce ne andiamo a fare uno spuntino. Che ne dice?
Heather esitò qualche istante, poi si decise. — Va bene. Ottima idea. Sto arrivando.
L’apparecchiatura utilizzata da Komensky si presentava abbastanza semplice.
Sul pavimento del laboratorio c’era un pezzo di substrato di circa tre metri per tre. Altri due pannelli dello stesso materiale, poggiati a una parete, sfioravano il soffitto.
Il substrato appariva di un color verde scuro tipo schede per computer. Immobile sul pannello disteso a terra pazientava un robottino non più grande di una scatola da scarpe, con un serbatoio cilindrico applicato in groppa.
Heather attendeva vicino a Paul. Un monitor lì accanto mostrava il dodicesimo radiomessaggio alieno, quello immediatamente successivo al gruppo contenente nozioni elementari di matematica e chimica.
— Non dobbiamo far altro che attivare il robot — spiegò Paul — e lui comincia a percorrere la superficie del substrato. Vede quel serbatoio? Contiene la seconda sostanza, il liquido. Il robot spruzza la sostanza secondo il disegno indicato qui sul monitor. Poi, tramite un laser, ritaglia la tessera dal pannello. Quindi rovescia la tessera e traccia un identico disegno sull’altro lato. È programmato in modo da seguire su entrambe le facce il medesimo orientamento, cosicché, se il substrato fosse trasparente, vedremmo i disegni sovrapporsi perfettamente. Infine utilizza un piccolo manipolatore per riporre la formella pronta dentro uno di quei contenitori.
Premette un pulsante e l’automa compì esattamente le operazioni descritte, producendo una formella rettangolare di circa dieci centimetri per quindici. Heather sorrise.
— Impiegherà circa un giorno a tagliare le tessere; una volta finito, ce le ritroveremo tutte riposte nei contenitori, nell’ordine preciso in cui dovranno essere agganciate fra loro.
— E se faccio cadere un contenitore?
Komensky sorrise. — Sa, a mio fratello maggiore una volta è successo. Il suo primissimo corso d’informatica lo ebbe alle superiori agli inizi degli anni Settanta. A quei tempi facevano ancora tutto con le schede perforate. Scrisse un programma per stampare un poster di Farrah Fawcett… se la ricorda? Doveva essere tutto composto da caratteri tipo asterischi, punti, barrette, simboli di dollaro, in modo da simulare una foto a mezzetinte se guardato da una certa distanza. Ci lavorò mesi interi, e alla fine fece cadere la scatola con quelle maledette schede e si mescolarono tutte… Un vero disastro. Comunque stia tranquilla. Il robot provvede anche ad applicare sul retro di ogni tessera una piccola etichetta autoadesiva col suo bravo numero di serie. Sono del tipo rimovibile, quindi se vuole potrà poi staccarle facilmente. — Tirò fuori la prima formella dal contenitore e mostrò a Heather l’etichetta.
Lei sorrise. — Ha pensato proprio a tutto.
— Faccio del mio meglio. — Il robot, proseguendo imperterrito, aveva già preparato altre sei tessere. — E adesso che ne direbbe dello spuntino?
Avevano scelto il Club di Facoltà, al 41 di Willcocks Street, due passi appena da Sid Smith. La sala da pranzo era decorata in stile Wedgwood: pareti grigiazzurre impreziosite da bianchi fregi rococò. Heather stava coi gomiti puntati sulla tovaglia bianca, le dita intrecciate dinanzi al viso. Rendendosi ovviamente conto che tale posizione aveva soprattutto lo scopo d’interporre l’anello matrimoniale a mo’ di scudo. Questo è il problema, rifletteva, a fare la psicologa: non puoi muovere un passo senza che ti tocchi esserne perfettamente consapevole.
Abbassò le mani poggiandole sui tavolo, e non meno automaticamente della posizione precedente la sinistra si sovrappose alla destra. Heather chinò lo sguardo, e nel constatare che l’anello continuava a far sfoggio di sé, si concesse un’impercettibile scrollata di spalle.
Ma la cosa non era sfuggita a Paul. — Vedo che è sposata.
Heather sollevò la mano, concedendo alla sua fede un’ulteriore passerella. — Da ventidue anni, però… — S’interruppe, domandandosi se fosse il caso di rivelarlo. Poi, dopo un fulmineo battibecco interno, cedette. — Però siamo separati.
Paul inarcò le sopracciglia. — Figli?
— Due. Ne avevamo due.
Lui reagì alla strana frase trasalendo lievemente. — Non li vedete spesso?
— Uno di loro è morto qualche anno fa.
— Oh, Dio mio. Mi dispiace.
Ebbe il buon gusto di non chiedere come, guadagnando un paio di punti nella stima di Heather. — E di lei che mi dice?
— Divorziato, da parecchio tempo. Un figlio. Vive a Santa Fé. Natale lo trascorro sempre giù con lui, sua moglie e i ragazzi. Tra l’altro è un bel sollievo venir via dal freddo.
Heather sollevò leggermente gli occhi al cielo come a invocare l’intervento di un poco di quel freddo, data la stagione.
— Suo marito di che si occupa?
— Lavora qui all’Università. Kyle Graves. Espressione sorpresa. — Kyle Graves è suo marito?
— Lo conosce?
— Esperto d’informatica, vero? Ci siamo conosciuti in commissione qualche anno fa, per l’istituzione del Centro Kelly Gotlieb.
— Sì, certo, mi ricordo quando ebbe quell’impegno. Sorridendo, Paul la fissò deciso in volto. — Kyle dev’essere pazzo, a lasciarla andar via.
Heather aprì la bocca per replicare che lei non se n’era affatto andata via, che si trattava solo di una separazione momentanea, che la questione era complicata. Ma poi la richiuse, e con un lieve cenno del capo accettò il complimento.
Arrivò il cameriere.
— Gradisce un po’ di vino? — domandò Paul.
Dopo pranzo, mentre da sola tornava in ufficio, Heather si collegò col digimemo alla sua casella vocale. C’era un messaggio di Kyle, le doveva parlare di una cosa importante. Non essendo lontana da Mullin Hall, decise di passare subito a sentire che cosa volesse.
— Oh, ciao, Heather — la salutò, nel vederla apparire sulla soglia del laboratorio. — Grazie per essere venuta. Ti devo parlare. Siediti.
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