Robert Sawyer - I transumani

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Ascoltare messaggi che vengono dalle stelle è un compito che i radioastronomi eseguono da anni nella speranza che possano arrivarci rivelazioni in grado di cambiare la nostra visione dell’universo. Ed è probabile che un giorno queste comunicazioni arrivino davvero, e che oltre a cambiare tutto ciò che sapevamo di là fuori mettano in discussione ciò che noi stessi siamo (o credevamo di essere). Quando questo avverrà, è probabile che non ci sia più posto per le illusioni dell’homo sapiens. E comincerà la lotta per consentire, o stroncare sul nascere, l’evoluzione di una nuova specie di uomini.

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— Mi chiamo Paul Komensky — disse l’uomo. Tese la mano e Heather la strinse.

— Mi servirebbe un lavoretto da ingegneri, in effetti. Avrei bisogno di far costruire qualcosa.

— Che cosa?

— Non sono proprio sicura. Un mucchietto di pannelli prefabbricati, diciamo.

— Grandi quanto?

— Non so.

L’ingegnere si accigliò… ma Heather non avrebbe saputo dire se fosse un cipiglio per una “ochetta giuliva” oppure per una “maniaca del fai-da-te”. — Un po’ vago, non crede? — osservò Komensky.

Heather gli rivolse il più affascinante dei suoi sorrisi. Al giorno d’oggi, nelle varie scuole d’ingegneria metà degli studenti erano donne, ma Komensky doveva avere abbastanza anni sul groppone da ricordare i tempi quando gl’ingegneri erano tutti rozzi maschiacci che a volte stavano settimane senza vedere una femmina. — Mi spiace — gli disse. — Il fatto è che sto lavorando sui radiomessaggi alieni, e…

— Sapevo d’averla già vista da qualche parte! Ma sì, alla tivù, che programma era?…

Quella domanda la mise un po’ a disagio, tante erano state le trasmissioni cui aveva partecipato ultimamente… meglio sorvolare, per non passare da presuntuosa.

— Forse Newsworld? — provò a imbeccarlo.

— Eh, già, può darsi. Quindi questi pannelli hanno a che fare con gli alieni?

— Non sono sicura, ma credo di sì. Vorrei preparare una serie di formelle che rappresentino i reticoli dei messaggi alieni.

— I messaggi quanti sono?

— Duemilaottocentotrentadue… quelli non ancora decifrati, per lo meno. Sono gli unici che mi serve trasformare in pannelli.

— Un bel mucchio di roba.

— Me ne rendo conto.

— E quanto debbano venire grandi non lo sa?

— Purtroppo no.

— Di che materiale dovrebbero esser fatti?

— Due diverse sostanze. — Gli porse il digimemo. Sullo schermo apparivano due formule chimiche. — È in grado di sintetizzarle?

Lui scrutò il display. — Certo. Nessuna difficoltà. Ma è sicura che siano solide a temperatura ambiente?

Una domanda che la colse di sorpresa. Aveva letto tutta la documentazione su quelle sostanze dieci anni prima, quando erano state sintetizzate per la prima volta, ma da allora, in effetti, non ci aveva più pensato granché. — Non ne ho idea.

— Questa qui credo di sì — sentenziò lui indicando la formula in alto. — Quest’altra… be’, vedremo. Sono formule dedotte dai messaggi alieni?

Heather annuì. — Dalle prime undici pagine. Naturalmente questi composti sono stati già sintetizzati da tempo, ma nessuno ha mai compreso a che cosa servissero.

Komensky sembrava impressionato. — Interessante.

Heather annuì di nuovo. — Voglio che i bit zero siano fatti di una sostanza, e i bit uno dell’altra.

— E uno dei due dev’essere verniciato sull’altro?

— Verniciato? No, no, penso che ciascuno dei due debba venire direttamente realizzato nel suo specifico materiale.

Il volto di Komensky esprimeva perplessità. — Non mi convince. Dalla seconda formula ho idea che venga fuori un liquido, il quale però potrebbe poi asciugarsi formando uno strato solido. Vede questi atomi di ossigeno e idrogeno? Potrebbero evaporare sotto forma di acqua, e come residuo otterremmo, appunto, un solido.

— Oh… Be’, allora sì, vada per la vernice. Oltretutto mi troverei risolto un grosso problema cui non m’era riuscito di dare risposta.

— E sarebbe?

— Ecco, poter stabilire quale sostanza rappresenti i bit uno, e quale i bit zero. Gli uno sono bit “superiori”, quindi la vernice bisogna che rappresenti gli uno, in quanto va stesa sopra il… il…

— Il substrato, in scienza delle costruzioni lo definiamo così.

— Il substrato, certo. E… sarà difficile da realizzare?

— Be’, si torna alla questione di quanto debbano esser grandi i pannelli.

— Mi tocca rispondere di nuovo che non lo so. Non sono tutti delle stesse dimensioni, comunque anche i più grandi bisognerebbe che non superassero pochi centimetri… perché poi voglio connetterli fra loro.

— Come, connetterli?

— Sì, affiancarli, giustapporli, in modo che si corrispondano l’un l’altro come tante tessere di un mosaico. Vede, se i cinquantanove pannelli di ciascun gruppo vengono disposti correttamente, formano un quadrato perfetto… e per arrivarci esiste una sola configurazione.

— Ma allora perché non costruire subito i riquadri grandi invece delle singole tessere?

— Non lo so. Il fatto stesso di dover collegare le formelle potrebbe avere la sua importanza. Ma insomma, non voglio fare supposizioni campate in aria.

— Come il fatto che i bit “superiori” debbano andare “sopra” il substrato?… — domandò Komensky con garbata ironia.

Heather si strinse nelle spalle. — È un’ipotesi buona come un’altra.

Lui annuì e preferì non contraddirla. — Allora, da duemilaottocento pannelli quanti quadrati risulterebbero?…

— Quarantotto.

— Ottenuti i quadrati cosa pensa di farne?

— Costruirci dei cubi… e poi collegare questi cubi per ottenere lo sviluppo di un tesseratto.

— Incredibile… Ma dice sul serio?

— Le pare che stia scherzando?

— D’accordo. E… una volta terminato, vuole che l’oggetto sia abbastanza grande da consentirle d’infilarsi dentro uno dei cubi?

— No, non sarà…

Heather s’interruppe di colpo.

È vero. Niente indicazioni di grandezza. Da nessuna parte, in nessuno dei messaggi, pareva esservi il benché minimo suggerimento circa le dimensioni da attribuire all’oggetto.

Fatelo grande quanto vi pare, sembravano dire gli alieni.

Fatelo della “vostra” misura.

— Ma sì, sì, sarebbe perfetto! Abbastanza grande da poterci entrare.

— Bene, allora, intesi. Nessun problema per realizzare i pannelli del substrato. Di che spessore li vuole?

— Non saprei. I più sottili possibile, credo.

— Volendo posso anche scendere fino a una molecola dì spessore.

— Oh, non “così” sottili. Bisognerà pure che siano maneggevoli. Un millimetro o due dovrebbe andar bene.

— Niente di più facile. Abbiamo già pronta una macchina per fabbricare plastipannelli da edilizia destinati alla Scuola di Architettura. Posso modificarla senza difficoltà in modo che produca le formelle che servono a lei. Le preferisce con i bordi lisci oppure con un sistema a incastro per poterle agganciare?

— In modo, cioè, che componendo i riquadri grandi, quelli rimangano belli compatti?

Komensky annuì.

— Sarebbe l’ideale.

— Per l’applicazione dell’altra sostanza come pensa di procedere?

— Immagino che mi toccherà farla a mano — rispose Heather.

— Be’, potrebbe anche, però qui disponiamo di microspruzzatori programmabili in grado di evitarle il disturbo, purché la sostanza non sia eccessivamente densa. Ci servono a tracciare disegni di vario genere sui pannelli per gli studenti d’architettura, come sagome di mattoni, teste di chiodi… roba del genere.

— Non chiederei di meglio. Quanto tempo ci vorrà?

— Be’, durante l’anno accademico di solito siamo piuttosto ingolfati, ma ih estate abbiamo un sacco di tempo libero. Si potrebbe cominciare anche subito. Dev’esserci ancora un paio di laureati a ciondolare qui in giro; posso incaricarne uno di studiare la preparazione delle sostanze. Come ho detto, a prima vista sembrerebbero abbastanza semplici, ma non possiamo esserne certi finché non ci mettiamo sul serio a sintetizzarle. A proposito… le spese chi se le accolla?

— Quanto crede che verrà a costare? — domandò Heather.

— Oh, non molto. I robot, di questi tempi, sono così a buon mercato che non li ammortizziamo più caricandoli sui costi di produzione come si faceva una volta. Diciamo quindi un cinquecento dollari per il materiale.

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