Carlo Collodi - Le avventure di Pinocchio
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— Ho capito; — disse subito quello svogliato di Pinocchio — questo paese non è fatto per me! Io non son nato per lavorare! -
Intanto la fame lo tormentava; perché erano oramai passate ventiquattr'ore che non aveva mangiato più nulla; nemmeno una pietanza di vecce.
Che fare?
Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un po' di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un boccon di pane.
A chiedere l'elemosina si vergognava: perché il suo babbo gli aveva predicato sempre che l'elemosina hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e gl'infermi. I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d'età o di malattia, si trovano condannati a non potersi più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l'obbligo di lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro.
In quel frattempo, passò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato, il quale da sé solo tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone.
Pinocchio, giudicandolo dalla fisonomia per un buon uomo, gli si accostò e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce:
— Mi fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir dalla fame?
— Non un soldo solo — rispose il carbonaio — ma te ne do quattro, a patto che tu m'aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone.
— Mi meraviglio! — rispose il burattino quasi offeso; — per vostra regola io non ho fatto mai il somaro: io non ho mai tirato il carretto!
— Meglio per te! — rispose il carbonaio. - Allora, ragazzo mio, se ti senti davvero morir dalla fame, mangia due belle fette della tua superbia, e bada di non prendere un'indigestione. -
Dopo pochi minuti passò per la via un muratore, che portava sulle spalle un corbello di calcina.
— Fareste, galantuomo, la carità d'un soldo a un povero ragazzo, che sbadiglia dall'appetito?
— Volentieri; vieni con me a portar calcina — rispose il muratore — e invece d'un soldo, te ne darò cinque.
— Ma la calcina è pesa — replicò Pinocchio — e io non voglio durar fatica.
— Se non vuoi durar fatica, allora, ragazzo mio, divertiti a sbadigliare, e buon pro ti faccia. -
In men di mezz'ora passarono altre venti persone: e a tutte Pinocchio chiese un po' d'elemosina, ma tutte gli risposero:
— Non ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, va' piuttosto a cercarti un po' di lavoro, e impara a guadagnarti il pane! -
Finalmente passò una buona donnina che portava due brocche d'acqua.
— Vi contentate, buona donna, che io beva una sorsata d'acqua alla vostra brocca? — disse Pinocchio, che bruciava dall'arsione della sete.
— Bevi pure, ragazzo mio! — disse la donnina, posando le due brocche in terra.
Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la bocca:
— La sete me la son levata! Così mi potessi levar la fame!… -
La buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito:
— Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d'acqua, ti darò un bel pezzo di pane. -
Pinocchio guardò la brocca e non rispose né sì né no.
— E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll'olio e coll'aceto — soggiunse la buona donna.
Pinocchio dètte un'altra occhiata alla brocca, e non rispose né sì né no.
— E dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio. -
Alle seduzioni di quest'ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe più resistere, e fatto un animo risoluto, disse:
— Pazienza! vi porterò la brocca fino a casa! -
La brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza da portarla colle mani, si rassegnò a portarla in capo.
Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola tavola apparecchiata, e gli pose davanti il pane, il cavolfiore condito e il confetto.
Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi.
Calmati a poco a poco i morsi rabbiosi della fame, allora alzò il capo per ringraziare la sua benefattrice: ma non aveva ancora finito di fissarla in volto, che cacciò un lunghissimo ohhh ! di maraviglia, e rimase là incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per aria e colla bocca piena di pane e di cavolfiore.
— Che cos'è mai tutta questa meraviglia? — disse ridendo la buona donna.
— Egli è… - rispose balbettando Pinocchio — egli è… egli è…, che voi mi somigliate… voi mi rammentate… sì, sì, sì, la stessa voce… gli stessi occhi… gli stessi capelli… sì, sì, sì… anche voi avete i capelli turchini… come lei!… O Fatina mia!… o Fatina mia!… ditemi che siete voi, proprio voi!… Non mi fate più piangere! Se sapeste! Ho pianto tanto, ho patito tanto!… -
E nel dir così, Pinocchio piangeva dirottamente, e gettatosi ginocchioni per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.
Capitolo XXV
Pinocchio promette alla Fata di esser buono e di studiare, perché è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.
In sulle prime, la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare più in lungo la commedia, finì per farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:
— Birba d'un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?
— Gli è il gran bene che vi voglio, quello che me l'ha detto.
— Ti ricordi, eh? Mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma.
— E io l'ho caro dimolto, perché così, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!… Ma come avete fatto a crescere così presto?
- È un segreto.
— Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch'io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un soldo di cacio.
— Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.
— Perché?
— Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.
— Oh! sono stufo di far sempre il burattino! — gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. - Sarebbe ora che diventassi anch'io un uomo…
— E lo diventerai, se saprai meritarlo…
— Davvero? E che posso fare per meritarmelo?
— Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.
— O che forse non sono?
— Tutt'altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece…
— E io non ubbidisco mai.
— I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu…
— E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l'anno.
— I ragazzi perbene dicono sempre la verità…
— E io sempre le bugie.
— I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola…
— E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita.
— Me lo prometti?
— Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene, e voglio essere la consolazione del mio babbo…Dove sarà il mio povero babbo a quest'ora?
— Non lo so.
— Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?
— Credo di sì: anzi ne sono sicura. -
A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sé. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò:
— Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta?
— Par di no — rispose sorridendo la Fata.
— Se tu sapessi che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi qui giace …
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