Carlo Collodi - Le avventure di Pinocchio
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— Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po' monelli e avvezzati male, c'è sempre da sperar qualcosa: ossia, c'è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma…
— Oh! che bella cosa! — gridò Pinocchio saltando dall'allegrezza.
— Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.
— Volentieri, volentieri, volentieri!
— Fino da domani — soggiunse la Fata — tu comincerai coll'andare a scuola. -
Pinocchio diventò subito un po' meno allegro.
— Poi sceglierai a tuo piacere un'arte o un mestiere… -
Pinocchio diventò serio.
— Che cosa brontoli fra i denti? — domandò la Fata con accento risentito.
— Dicevo… — mugolò il burattino a mezza voce — che oramai per andare a scuola mi pare un po' tardi…
— Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.
— Ma io non voglio fare né arti né mestieri…
— Perché?
— Perché a lavorare mi par fatica.
— Ragazzo mio, — disse la Fata — quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o allo spedale. L'uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall'ozio! L'ozio è una bruttissima malattia e bisogna guarirla subito, fin da bambini: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più. -
Queste parole toccarono l'animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa, disse alla Fata:
— Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perché, insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l'hai promesso, non è vero?
— Te l'ho promesso, e ora dipende da te. -
Capitolo XXVI
Pinocchio va co' suoi compagni di scuola in riva al mare, per vedere il terribile Pesce-cane.
Il giorno dopo Pinocchio andò alla Scuola comunale.
Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro: chi gli levava il berretto di mano: chi gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll'inchiostro due grandi baffi sotto il naso, e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani, per farlo ballare.
Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli che più lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro:
— Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio esser rispettato.
— Bravo berlicche! Hai parlato come un libro stampato! — urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, più impertinente degli altri, allungò la mano coll'idea di prendere il burattino per la punta del naso.
Ma non fece a tempo: perché Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò una pedata negli stinchi.
— Ohi! che piedi duri! — urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino.
— E che gomiti!… anche più duri dei piedi! — disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s'era beccata una gomitata nello stomaco.
Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata, Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un ben dell'anima.
E anche il maestro se ne lodava, perché lo vedeva attento, studioso, intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l'ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.
Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni: e fra questi, c'erano molti monelli conosciutissimi per la loro poca voglia di studiare e di farsi onore.
Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli più volte:
— Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno prima o poi col farti perdere l'amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa disgrazia.
— Non c'è pericolo! — rispondeva il burattino, facendo una spallucciata, e toccandosi coll'indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C'è tanto giudizio qui dentro!»
Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso la scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che, andandogli incontro, gli dissero:
— Sai la gran notizia?
— No.
— Qui nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane, grosso come una montagna.
— Davvero?… Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo?
— Noi andiamo alla spiaggia per vederlo. Vuoi venire anche tu?
— Io no: io voglio andare a scuola.
— Che t'importa della scuola? Alla scuola ci anderemo domani. Con una lezione di più o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari.
— E il maestro che dirà?
— Il maestro si lascia dire. È pagato apposta per brontolare tutti i giorni.
— E la mia mamma?
— Le mamme non sanno mai nulla — risposero quei malanni.
— Sapete che cosa farò? - disse Pinocchio. - Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie ragioni… ma anderò a vederlo dopo la scuola.
— Povero giucco! — ribatté uno del branco. - Che credi che un pesce di quella grossezza voglia star lì a fare il comodo tuo? Appena s'è annoiato, piglia il dirizzone per un'altra parte, e allora chi s'è visto s'è visto.
— Quanto tempo ci vuole di qui alla spiaggia? — domandò il burattino.
— Fra un'ora, siamo bell'e andati e tornati.
— Dunque, via! e chi più corre, è più bravo! — gridò Pinocchio.
Dato così il segnale della partenza, quel branco di monelli, coi loro libri e i loro quaderni sotto il braccio, si messero a correre attraverso ai campi: e Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi.
Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato, in quel momento, non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie andava incontro!…
Capitolo XXVII
Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni: uno de' quali essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.
Giunto che fu sulla spiaggia, Pinocchio dètte subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Pesce-cane. Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio.
— O il Pesce-cane dov'è? - domandò, voltandosi ai compagni.
— Sarà andato a far colazione — rispose uno di loro, ridendo.
— O si sarà buttato sul letto per fare un sonnellino — aggiunse un altro, ridendo più forte che mai.
Da quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio capì che i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli ad intendere una cosa che non era vera, e pigliandosela a male, disse loro con voce di bizza:
— E ora? che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del Pesce-cane?
— Il sugo c'è sicuro!… - risposero in coro quei monelli.
— E sarebbe?
— Quello di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e così diligente alla lezione? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai?
— E se io studio, che cosa ve ne importa?
— A noi ce ne importa moltissimo, perché ci costringi a fare una brutta figura col maestro…
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