Mo Hayder - Birdman

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In un'area industriale semiabbandonata della periferia londinese vengono scoperti i cadaveri di cinque donne mutilate e seviziate. Scattano immediatamente le indagini che vengono affidate al giovane ispettore Jack Caffery. Egli comprende all'istante che i delitti sono opera di un maniaco: le vittime sono state infatti sottoposte a procedure chirurgiche amatoriali per la riduzione del seno e sono state pettinate e truccate in modo da ricordare delle bambole. La morte tuttavia non è stata causata dalle orrende ferite, bensì da un'iniezione letale; inoltre il killer ha inserito nel petto delle vittime e cucito accanto al cuore un uccellino vivo, simbolo e firma del suo macabro operato.

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E, in quella tranquillità, Rebecca avvertì i primi, lievi sintomi del cambiamento.

Diamine, ce n'è voluto di tempo.

Due mondi a parte – lo sostenevano tutti – appartenevano a due mondi completamente diversi; il loro unico legame, un tempo importante, si stava indebolendo.

Rebecca proveniva dalle Home Counties. Suo padre – un uomo alto e serio col viso e l'atteggiamento da filosofo – era veramente felice solo quando, in completa solitudine, si ritirava nello studio con le sue edizioni di lusso dei sonetti d'amore elisabettiani. La madre, nel contempo, vagava per le stanze del piano superiore, infilandosi in bocca manciate di trazodone. Per gli esperti, si trattava di disturbo bipolare. Talvolta la donna stava a letto per giorni, dimenticandosi di lavarsi o di mangiare, dimenticandosi anche di avere una figlia cui badare.

Su queste basi Rebecca aveva dovuto costruirsi un'identità: gli Amoretti di Spenser, l'amitriptilina e le punizioni serali. Se la piccola Becky era troppo irrequieta, i tranquillanti della mamma finivano nel suo succo d'arancia.

Divenne un'adolescente esile e seria, convinta di essere assolutamente sola e diversa.

Sono i padri che esercitano violenza sui figli, non le madri. I giornali e la TV non parlano delle madri.

La ragazza scappò dal Surrey, inizialmente con l'intenzione di frequentare l'università e finendo invece a Londra. E un bel giorno conobbe Joni: in shorts, avanzava disinvoltamente verso di lei lungo le strade di Greenwich, con gli occhiali dalle lenti a cuore sul naso e uno spinello tra i denti. Parlava della sua «infanzia di merda» con la stessa veemenza di un predicatore. La vita di Joni era fatta di case popolari, di code per riscuotere il sussidio, di vomito sulle scale e di piccioni che si accoppiavano sul davanzale della finestra. Per Rebecca, quella era una musica familiare, tanto che decise di stare con lei.

«Mia madre. E colpa di mia madre se ho iniziato a drogarmi… Se un bel giorno non mi avesse fatto prendere i suoi tranquillanti, solo per farmi stare zitta… Me li faceva ingoiare a forza, e urlava che me le avrebbe date se non avessi preso quella roba. Bisognava farla a pezzi prima della mia nascita, quella vacca di una puttana.»

E Rebecca: «Una volta mi ha obbligato a farle il bagno. Piangeva. Avevo otto anni e anch'io ho incominciato a piangere. E lei mi ha dato qualche pastiglia per calmarmi».

«Non dirmelo… Forse il Tofranil?»

«Sì, o qualcosa del genere… Mangiava quando le pareva e mi dava da mangiare quando se ne ricordava. Una volta ho vissuto di Nesquik alla banana per una settimana. Quando mio padre disse che stavo diventando troppo magra, si spaventò. Si precipitò da Bejam, a Guildford, tornò con cinque vaschette di gelato e mi costrinse a mangiarlo finché non vomitai tutto.»

«Ti avrà riempita di botte, immagino.»

Sapevano di essere molto diverse, eppure giuravano che, nel loro intimo, erano sorelle. Trascorsero insieme alcuni anni felici e spensierati, scambiandosi i ragazzi e i rossetti, senza preoccuparsi di fermarsi a riflettere, senza notare che, mentre Joni passava le giornate dormendo per recuperare il sonno perduto nelle notti in bianco, Rebecca si alzava presto e prendeva l'autobus per andare al Goldsmiths College. Poi la loro complicità si era andata lentamente deteriorando. Ormai Rebecca confidava a Joni meno di ciò che avrebbe detto a una bambina.

Soprattutto non le confidava ciò che aveva pensato del detective Jack Caffery.

Uno sbirro? Per l'amor del cielo, sei matta?

Il giorno prima, fuori del pub, era rimasta colpita dal suo collo – sapeva che non aveva senso, ma ne era praticamente ossessionata – e soprattutto dal punto in cui la pelle abbronzata e il colletto bianco s'incontravano. E aveva anche notato i capelli, tagliati corti intorno alle orecchie. Più volte aveva cercato d'immaginarselo durante un orgasmo.

In quel momento, seduta nello studio, con indosso l'abito che si era messa per uscire, allontanò con cautela quell'immagine. Sii seria, Becky, ficcati in quella testolina malata qualcosa di bello e di corretto, degno di una ragazza per bene.

Attese che il rossore fosse svanito dal viso e premette il tasto del citofono per far entrare il detective. Poco dopo Jack fu davanti alla sua porta, l'aria stanca e la barba incolta.

«Si accomodi», esclamò la ragazza, spalancando la porta e piegando una gamba per infilarsi una ballerina di pelle. «Sono quasi pronta», aggiunse, mettendo l'altro piede nella scarpa e accendendo le luci alle pareti, mentre lo seguiva in cucina. «Un bicchiere di Pouilly?»

«È già aperto?»

«Il vino scorre a fiumi quando sono nervosa.»

«Per quale motivo?»

«A prescindere dalla risposta più ovvia? Cioè dallo 'Squartatore del Millennio'?»

«C'è qualche altro motivo?»

«Se proprio vuole saperlo, ho paura delle riunioni di gente con pretese artistiche, ho il terrore dei dolcevita neri, dei pizzetti, delle discussioni infinite, di Fluxus e dell'Espressionismo tedesco e del bla, bla, bla. Sa come vanno queste cose. Ci sono addirittura certi tizi che pagano duecento ghinee per vedersi gettare in faccia della vernice o che altro… Se proprio devo uscire dal mio atelier e dimostrare interesse, mi aiuto con un po' di Fuissé!»

Notando che Jack non sorrideva, tacque e prese il vino dal frigorifero, posandolo sul tavolo in legno. Sulla bottiglia si formarono piccole gocce di condensa. «Mi ha detto che voleva parlarmi.» Stava in punta di piedi, cercando di prendere i bicchieri dalla credenza.

«Gemini è stato fermato per un interrogatorio.»

Rebecca si bloccò per un attimo e i due calici rimasero sospesi a mezz'aria. «Capisco.»

«Pensavo che desiderasse saperlo.»

Lei riappoggiò i talloni e rimase ferma, fissando il frigorifero. «Ne abbiamo già parlato.»

«Lo so.»

«Che cos'è andato storto?»

«Ne abbiamo parlato troppo tardi. Se mi avesse raccontato di Gemini e di Shellene quando gliel'ho chiesto la prima volta…»

«Mi sta forse facendo la predica?»

«Oppure quand'eravamo all'obitorio.»

«Sì, mi sta proprio facendo la predica.»

«Quello che ha visto non era forse più importante della fonte da cui la sua amica si procurava la droga? Forse avrei dovuto farle vedere più foto di Petra. Le ha squartate, sa? Ha mutilato i seni, le ha sezionate…»

A quelle parole, la ragazza si voltò verso di lui. Jack smise di parlare, lo sguardo fisso, come se stentasse a credere alle parole che aveva appena detto. «Merda. Mi dispiace.»

Rebecca rabbrividì. «È tutto a posto.» Posò i bicchieri sul tavolo, versò il vino e gli porse il bicchiere. Le dita le tremavano. «Anch'io ho lavorato in quel locale, avrei potuto essere io. O Joni.» Poi lo guardò e chiese: «Le trova lì, le sue vittime, vero?»

«Proprio di questo io e lei dovremmo parlare.»

«Quindi è che le trova.»

«È probabile.»

«Le segue mentre tornano a casa?»

«È un'ipotesi.» Jack sollevò il bicchiere e lo guardò, pensieroso, rigirandolo tra le mani per catturare gli ultimi raggi di sole provenienti dalla finestra. «Ma è necessario che lei sappia qual è la mia opinione in proposito.»

«Vada avanti.»

«Penso che le ragazze avessero un appuntamento con lui, per far sesso o per farsi una dose. Penso che lo conoscessero già e che, in qualche modo, avessero fiducia in lui, perlomeno abbastanza da rimanere sole in sua compagnia, nella sua auto, forse persino a casa sua. Sembra bene integrato; forse è un medico, un assistente di laboratorio o comunque qualcuno che lavora in ospedale.» Tacque per un istante, soppesando con cura le parole. «Sicuramente è qualcuno di cui si fidavano al punto di lasciare che iniettasse loro la droga.»

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