Tick, tick, tick.
Portava un borsone di tela grigia, ma il suo peso non intralciava il movimento esatto delle braccia. L'uomo non rallentava per evitare le persone sul marciapiede, seguiva una traiettoria nel suo cervello, una linea retta dove ogni passo era della stessa lunghezza, della stessa velocità.
Erano fermi nel traffico da un'ora, e si annoiavano a morte. L'interprete era malata e la guida turistica americana non aveva ancora capito che nessuno di loro parlava l'inglese. Conoscevano solo la parola turista e qualche insulto sempre utile. Ora erano ammassati su un lato dell'autobus, a guardare l'uomo che camminava come un soldatino meccanico lungo il marciapiede.
Stava per succedere qualcosa.
Il traffico si stava sbloccando, ma il bus procedeva lentamente. L'uomo meccanico svoltò l'angolo e s'incamminò lungo una strada laterale. La maggior parte dei pedoni si scansò, ma due ragazze minute inavvertitamente gli finirono addosso. Attraversando Avenue B, l'uomo prese a calci un cane, ma non intenzionalmente: si era solo trovato sulla sua traiettoria. La padrona del cane lo insulto, e lui la superò senza curarsene. Tagliò la strada al bus e l'autista inchiodò. I passeggeri scoppiarono a ridere. Finalmente qualcosa d'interessante: avevano quasi ucciso una persona. I finlandesi si spostarono dall'altro lato del bus. L'uomo ora camminava sul marciapiede opposto. Prese il cappello da baseball dalla borsa, lo indossò e abbassò la visiera per nascondere la faccia. Poi prese dalla tasca una grande spilla e se la appuntò alla maglietta. Io amo New York. Si fece largo tra i passanti, senza vedere niente, senza sentire nessuno. Tra gli insulti e i gestacci della folla. A quel punto i turisti finlandesi udirono uno scoppio e alcuni si abbassarono per proteggersi. Avevano visto parecchi film in televisione sulle sparatorie di New York.
L'uomo si fermò, e anche l'autobus. Mentre l'autista imprecava contro la gomma bucata, la guida turistica pregò i passeggeri di non allontanarsi. I finlandesi non avevano capito cosa dicesse, ma era chiaro che non avevano alcuna intenzione di muoversi. Dietro gli occhiali da sole, osservavano l'uomo di legno avvicinarsi all'ingresso di un condominio. Una ringhiera delimitava un giardinetto con un'aiuola di margherite. L'uomo si avvicinò alla ringhiera, aprì la borsa e ne estrasse una macchina fotografica. Poi guardò l'orologio.
I finlandesi capirono che anche lui era in attesa. Aspettava che accadesse qualcosa. Aspettarono con lui, senza perderlo di vista in mezzo ai pedoni che si dirigevano verso la metropolitana. Indossavano tutti gli stessi vestiti sportivi, ma l'uomo di legno sembrava non appartenere a quel mondo di persone normali. Guardò l'orologio e i turisti si guardarono l'un l'altro. Non ci sarebbe voluto molto.
L'uomo ruotò tutto il corpo per guardare la porta del condominio, e i turisti si voltarono con lui. La porta si aprì e una donna bionda e slanciata attraversò il giardinetto, muovendosi veloce sui tacchi altissimi. La camicetta era bianca, la gonna azzurra come la giacca ripiegata sul braccio.
La ragazza aprì il cancello e corse sul marciapiede passandosi una mano tra i capelli. Si sbracciò per fermare un taxi.
I finlandesi fissarono quella donna molto attraente, forse una diva della televisione o del cinema. Speravano che fosse un'attrice: era da due giorni che non vedevano una celebrità.
L'uomo si tolse gli occhiali da sole e seguì la bionda. Il sole si rifletté su un oggetto metallico. L'uomo sgusciò tra i pedoni e andò a sbattere contro la ragazza.
Stella urlò: «Fottuti turisti!». I finlandesi restarono interdetti, ma non se la presero. L'uomo puntò la macchina fotografica. Istintivamente Stella si aggiustò i capelli e si mise in posa. A quel punto un taxi si fermò, Stella salì a bordo senza più badare all'uomo di legno.
Lo spettacolo era finito. L'uomo se ne andò. I turisti finlandesi guardarono da un'altra parte, assumendo un'aria contegnosa. A New York bisogna farsi gli affari propri.
Il taxi era intrappolato nel traffico e il nervosismo di Stella aumentava. Bussò sul vetro antiproiettile che la separava dall'autista. Lui non si voltò. Perché avrebbe dovuto? Non parlava inglese, e Stella lo capì quando si mise a gridare: «Niente mancia, sono in un ritardo schifoso».
Il tassista con il turbante annuì, rassicurandola che presto si sarebbero mossi. Era un uomo molto educato, un'altra prova che non fosse nato a New York.
Stella guardò l'orologio per la terza volta, era davvero in ritardo.
«D'accordo, hai vinto!» Sventolò una banconota in modo che il tassista potesse vederla dallo specchietto retrovisore. Pagò la corsa e scese dal taxi a due isolati dall'hotel. La giacca azzurra era piegata con cura sul braccio, così non correva il rischio che un escremento di piccione la insozzasse. Adesso Stella camminava rapidamente sul marciapiede, fendendo la folla. Due donne rallentarono per osservarla, violando una elementare regola di sopravvivenza a New York. Non si fissano le persone. Stella si chiese se l'avessero riconosciuta, dopo tutto aveva avuto una parte in una soap opera.
Continua pure a sognare.
Anche un vecchio signore si fermò a guardarla. Stella gli sorrise.
Sì, sono proprio io, la famosa attrice che non ha detto una sola battuta.
Adesso erano in molti a fissarla. Una coppia di mezza età si fermò e la indicò: bisbigliavano, l'avevano riconosciuta. Quella soap opera era più seguita di quanto pensasse.
Questa gente non ha un lavoro?
Entrò nella hall dell'hotel. Al bancone della reception un ragazzo annoiato non la degnò di uno sguardo e si limitò a porgerle un foglio. Una donna vicino alla porta della sala conferenze leggeva a voce alta un elenco di cognomi. Era arrivata alla lettera R. Stella Small sospirò. L'ordine alfabetico era dalla sua. Era un giorno fortunato.
Si infilò la giacca e si avvicinò al gruppo di aspiranti attrici. Nessuna le prestò attenzione. Gli occhi delle ragazze erano concentrati sul copione. Stella guardò il suo, una riga, sei parole. Che ci voleva a impararle?
Si appoggiò al muro dietro una pianta di felce, lontano dalla calca per evitare che qualcuno stropicciasse o sporcasse il suo vestito portafortuna. Quando chiamarono il suo nome, entrò nella sala e si fermò davanti a un lungo tavolo ricoperto di bottiglie e bicchieri, carte e vassoi. Oltre la tovaglia di lino il regista e il produttore sedevano in compagnia degli assistenti. Non aveva ancora pronunciato la sua battuta, e già tutti la fissavano attoniti, rapiti. Regalò loro il suo sorriso migliore. L'attrice sentì qualcosa di umido che le gocciolava sulla mano. Una spessa striscia di sangue impregnava la manica della giacca. Gocciolava a terra dalla punta delle dita.
«Ma che diav…» Era la battuta sbagliata. Chiuse gli occhi e svenne. La testa picchiò sul pavimento.
Le tende verdi circondavano il letto del pronto soccorso garantendo un po' di privacy alla giovane coppia. Le gambe di Stella Small penzolavano dal bordo del lettino metallico, e il dottore sembrava intimidito mentre le medicava il braccio. La testa del dottore si spostò di lato, improvvisamente distratto da un'ombra dietro le tende. Sembrava la famosa scena di Psycho. La mano che si solleva, poi la tenda spostata di colpo. Il giovane dottore fissava una donna corpulenta con una massa di capelli scuri e un lungo vestito nero che fluttuava come quello di una suora.
Stella aveva sempre sospettato che la sua agente potesse sentire l'odore del sangue anche da lontano. Martha Sutton era una donna formidabile, incline al melodramma e molto più spaventosa di una vera suora.
«Bella entrata.»
«Oh Stella, hai un aspetto magnifico…»
La donna fissò il braccio ferito e le macchie di sangue sui vestiti. Nel linguaggio degli agenti significava pubblicità assicurata.
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