«No, secondo me non funziona» disse Augusta, guardandogli le calze zuppe e le scarpe rovinate. «Il padre di Kathy era uno di fuori. Non è possibile che sia arrivato qui con una trentina di amici senza che nessuno se ne fosse accorto. D'altronde come avrebbe potuto un forestiero mettere insieme trenta persone del luogo per far loro compiere una cosa del genere?»
«Ma il padre non avrebbe potuto essere uno di Dayborn?»
Augusta scosse il capo. «Cass se ne andò a diciott'anni e non tornò finché non ne ebbe ventotto. Tutti gli altri che se ne andarono da Dayborn per frequentare il college non misero più piede in paese. Tranne Tom, lui tornò, ma fu quattro o cinque anni prima di Cass.»
«Ci potrebbe essere un collegamento fra l'assassinio di Cass e quello di Babe?»
«Dubito. Cass non aveva nemici. La sua morte resta un vero mistero. Mentre Babe era una tale carogna che nessuno si è troppo sorpreso del suo omicidio.» Agitò con impazienza le mani, come per liberarsi di quell'argomento. «Così, dove te ne vai adesso, Charles?»
Esitò per un attimo.
«Lascio il bed & breakfast. Henry mi ha invitato a stare da lui, ma non credo voglia che la cosa si sappia in giro.»
Augusta si limitò ad annuire, senza esprimere alcuna curiosità. «Be', non sei costretto ad andarci subito, no? Devo riportare il cavallo nella stalla, e dopo di che mi farebbe piacere se restassi a cena con me. È tutto pronto, basta dare una scaldata.»
«Grazie.»
«E poi ti spedirò all'emporio di Earl. Ci troverai un paio di jeans della tua misura e forse anche degli stivali robusti.»
Camminarono insieme sul terreno che si faceva più solido a ogni passo che li avvicinava alla casa.
L'unico accesso a Casa Trebec passava dal cimitero. Qualsiasi altro percorso nel paludoso terreno circostante sarebbe stato ad alto rischio per qualsiasi automobile. Anche per raggiungere Casa Shelley la via era soltanto una. Oltre a quella, c'era la palude e il bayou. «Immagino che l'assassino abbia portato via il corpo di Cass con un veicolo.»
«Certo non l'ha buttato nella palude. Se ci nascondi un corpo, dopo un po' riaffiora.»
«È possibile che Cass sia sopravvissuta?»
«No, nel modo più assoluto.» Augusta in questo era decisa. «C'era troppo sangue. Tom Jessop diede per morta persino Kathy. Cass non può essere viva.» E, con un'ombra di minaccia, aggiunse: «E che non ti venga in mente di suggerire l'idea a sua figlia».
La figlia di Cassandra Shelley guardò a nord, verso Casa Trebec, nascosta dietro le querce a eccezione della finestra della soffitta. Le nuvole che si riflettevano nel vetro rotondo creavano un'illusione di movimento e di vita all'interno.
Mallory trasportò il corpo del cane nel denso fogliame sul lato opposto della casa di sua madre per impedirne la vista dalla finestra di Augusta, tanto simile a un occhio. Quando era molto piccola, aveva creduto che quell'occhio la seguisse dovunque. Lo ricordava molto bene e, adesso, in qualche recesso della mente immaginava che l'occhio-finestra si ricordasse di lei.
Sedette accanto al cane e percorse con la mano il suo corpo ancora caldo coperto da cicatrici.
Era attenta a ogni suono, a ogni movimento fra gli alberi e nell'erba. L'aria pullulava d'insetti e vibrava per il canto degli uccelli. L'azzurro del cielo si stava lentamente rabbrunendo con il calare della sera. Poteva sentire il mormorio del fiumiciattolo che scorreva di fianco alla casa, il suo sciabordare sui sassi o contro qualche ramo galleggiante.
Gli accordi di una musica fantasma si diffusero dalla finestra alle sue spalle, dolci, semplici note: la lezione di piano d'un bambino. Quando si girò, riempì il vetro della finestra con il ricordo dell'immagine di una donna. Il sorriso di Mallory era sempre stato un po' forzato, mentre la madre, nella finestra nella sua mente, rideva in preda a una gioia assoluta. Gli occhi le brillavano come stelle verdi mentre guardava la figlia: la piccola Kathy; sei anni, quasi sette.
Mallory alzò la mano verso la finestra, e la donna le fece un cenno di saluto. Era troppo doloroso prolungare quell'illusione, e Mallory si staccò dal proprio riflesso. Era di nuovo sola.
Il ricordo della violenza e del terrore rimase con lei ben più a lungo. Aveva davanti a sé l'immagine della madre, con i capelli pieni di sangue, che strisciava sul pavimento verso di lei, la prendeva fra le braccia, tirava fuori un pennarello dalla tasca dell'abito insanguinato e le scriveva un numero di telefono sul dorso della mano. «Corri» aveva detto Cass Shelley alla sua bambina. La piccola Kathy si era stretta alla mamma, terrorizzata, strillando. «Corri!» aveva urlato ancora la madre. E poi l'aveva schiaffeggiata, per la prima volta, per farla andar via.
Mallory girò il viso e guardò il cielo. C'erano piccole luci là in alto che si accendevano una dopo l'altra. Andò a prendere un vecchio telone dal capanno degli attrezzi del giardino e lo usò come sudario per il corpo del cane. Un'ora più tardi, quando era ormai notte, lo prese in braccio e lo portò nel bosco.
Charles uscì dalla porta del Dayborn bed & breakfast con la valigia in mano. Sul portico Darlene Wooley era sprofondata in una delle poltrone di vimini accanto alla balaustra. La lampada sulla sua testa creava ombre impietose sul suo viso stanco.
«Salve» le disse con voce pacata, ma nonostante ciò, lei sussultò prima di rivolgergli un debole sorriso.
Charles posò la valigia accanto alla sedia. «Oggi ho incontrato Ira al cimitero. Ho cercato di parlargli, ma temo di averlo sconvolto. Sono davvero spiacente.»
«Non deve.» Fece uno sforzo per mantenere il sorriso, che le scivolò via mentre si guardava le mani intrecciate. «Mi fa molto piacere che lei si sia fermato a parlargli. Alcune persone in paese lo credono completamente incapace di comunicare.»
«Io potrei raccontare loro cose ben diverse.» Betty uscì sul portico. Reggeva un vassoio con un servizio da caffè in porcellana. «Ira parlava come un fiume in piena quando era piccolo.»
I capelli bianchi di Betty avevano assunto un riflesso giallo sotto la luce. La stessa lampada che aveva invecchiato Darlene faceva sembrare l'albergatrice più giovane dei suoi sessantacinque anni. La carne delle braccia flaccide tremolò sotto le maniche dell'abito quando respinse l'offerta di Charles di portarle il vassoio. Lo posò su un tavolino. «Ho portato una tazza in più per lei, signor Butler.» Betty si sedette sul dondolo. «Non corra via subito. Si sieda un attimo.»
«Grazie, ben volentieri.» Si sistemò nella poltrona accanto a Darlene e dovette affrontare il solito problema di cosa fare delle sue lunghe gambe.
Scelse di lasciarle allungate sulle assi del portico, fra le due donne. «Cass Shelley era il medico curante di Ira, non è vero?»
Darlene annuì. «Cass iniziò la terapia quando Ira aveva due anni e pensi che quando ne aveva cinque sapeva già leggere.»
Un tributo a un bravo medico che per altro attestava il grande impegno di Ira: evidentemente era stato molto motivato a entrare a far parte del mondo.
«Un progresso fantastico.»
«Lo pensavo anch'io. Ma suo padre non era altrettanto soddisfatto. Una sera, mio marito portò Ira a una cerimonia religiosa di guarigione. Ha mai visto uno di quegli spettacoli, tra preghiere e finti miracoli?»
Charles annuì mentre cercava di immaginare il terrore di un bambino autistico che, di fronte a un migliaio di persone urlanti, affrontava l'imposizione delle mani del guaritore. In una situazione simile, il solo contatto forzato sarebbe bastato a provocargli una crisi. «Immagino che l'esperienza lo abbia traumatizzato.»
«Altro che!» esclamò Darlene, e nella sua voce vibrava ancora un residuo di rabbia. «Se quella sera non avessi dovuto lavorare fino a tardi, avrei potuto impedirglielo. Ira non fu più lo stesso, dopo. E poi, con la morte di Cass, peggiorò, non disse una parola per tantissimo tempo. Mio marito lo portò dal medico del distretto vicino. Lui tentò una nuova terapia, gli faceva delle iniezioni per le allergie.»
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