Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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McDunn annuisce a sua volta con aria cupa, aggrotta la fronte. «E allora di chi era il corpo nell’albergo? Non c’è stata nessuna denuncia di scomparsa, lassù.»

«Ci sarà», spiego. «Un tizio che si chiama Howie… Non ricordo il cognome, mi pare che cominci con la G. Doveva partire per Aberdeen il giorno in cui me ne sono andato, per andare a lavorare su una piattaforma petrolifera. Quella notte abbiamo fatto una festicciola all’albergo, e pare che ci sia stata una rissa. È successo dopo che mi sono sbronzato; mi hanno portato a letto di peso. Andy mi ha raccontato che Howie e un paio di locali hanno pestato un paio di hippy che erano alla festa. Qualcuno ha chiamato l’unico poliziotto del posto e lui cercava Howie.» Allargo le mani davanti a me. «Intendiamoci, queste sono cose che mi ha raccontato Andy, quindi potrebbero anche essere palle, ma ci scommetto che, almeno fino a questo punto, è tutto vero. Credo che Andy abbia offerto a Howie un posto nell’albergo, in modo che potesse nascondersi mentre la polizia lo cercava; ormai gli altri saranno convinti che Howie si trovi sulla piattaforma.» Tamburello sul tavolo e guardo il pacchetto di sigarette di McDunn, sperando che capisca. «Grissom», dico, di colpo. Ci ho pensato tutta la notte, ma non mi è venuto in mente, mentre ora, parlandone, me lo sono ricordato all’improvviso. «Ecco chi era. Howie Grissom. Il cognome era Grissom.»

Provo una terribile sensazione di vuoto, di nausea. Le mani hanno ripreso a tremare; me le infilo tra le gambe. Faccio una risatina. «Ho persino visto il poliziotto locale davanti allo studio del dentista, il giorno della festa. Ho pensato che fosse andato a farsi otturare un dente, ma si vede che Andy era riuscito a entrare nello studio e a scambiare le cartelle.»

«Stiamo confrontando i denti del cadavere trovato nell’albergo con le cartelle negli archivi dell’esercito», mi rivela McDunn, annuendo. Guarda l’orologio. «Dovremmo avere una risposta già questa mattina.» Scuote la testa. «Ma perché proprio quei due? Perché Lingary e il dottor Halziel?»

Gli spiego il perché, gli racconto degli altri due tradimenti, dell’ufficiale che aveva lasciato morire i suoi uomini per nascondere la propria inadeguatezza (perlomeno, questo pensava Andy, e comunque era questo che contava) e del medico che non si era preoccupato di andare a visitare una paziente e che, quando infine l’aveva fatto, aveva liquidato il grave disturbo della giovane come un banalissimo malessere.

Finalmente McDunn mi offre una sigaretta. Che gioia! La prendo e aspiro forte, tossendo un po’. «Immagino», dico, «che stia andando sul personale perché i suoi abituali bersagli stanno diventando più cauti.» Mi stringo nelle spalle. «E forse immagina che vi metterò sulla sua strada, o che magari lo capirete da soli, e quindi sta pareggiando i vecchi conti in sospeso fin che può, prima che anche quelle persone comincino a sospettare qualcosa.»

McDunn sta fissando il pavimento e continua a giocherellare con il dorato pacchetto di sigarette. Scuote la testa. Ho l’impressione che sia d’accordo con quanto ho appena detto e stia scuotendo la testa come segno d’impotenza di fronte all’insondabile tortuosità della mente umana. Non so perché, ma mi fa pena.

Facciamo una pausa quando un giovane agente entra per portarci il tè; la guardia alla porta prende la sua tazza e McDunn e io sorseggiamo dalle nostre in silenzio.

«Dunque, ispettore», riprendo, appoggiandomi allo schienale della sedia. Diamine, mi sto quasi divertendo, rimorsi a parte. «Andiamo o no?»

McDunn stringe le labbra con aria mesta. Poi annuisce.

Inciampo in qualcosa nascosto tra le felci, ruoto a mezz’aria mentre mi cede la caviglia, e cado all’indietro, avvitandomi su me stesso. Rimango a terra, boccheggiante, terrorizzato che l’uomo arrivi e mi afferri mentre sono lì, indifeso. Poi sento un urlo.

Mi rialzo.

Abbasso lo sguardo e vedo su che cosa sono inciampato: è un ramo caduto, grande più o meno quanto un braccio. Lo fisso, andando indietro con la memoria fino a quel lontano giorno sul fiume gelato.

Prendi un ramo.

Un altro urlo.

Prendi un ramo.

Continuo a fissare il ramo; è come se il cervello mi urlasse nella testa e non so che cos’altro stia ascoltando, ma non sta ascoltando; il mio cervello sta urlando Scappa! Scappa! però il messaggio non arriva, c’è qualcos’altro che si frappone, qualcosa che mi tira indietro, che mi tira verso Andy, verso l’argine ghiacciato. Vedo Andy che grida, che allunga una mano verso di me, che sta per scivolare via di nuovo e io non posso fare niente… Questa volta invece sì, questa volta io posso fare qualcosa, e lo farò.

Afferro il ramo e lo libero dall’erba e dalle felci. Ricomincio a correre, ma verso il luogo da cui sono appena scappato; tengo il ramo davanti a me, stretto fra le mani. Sento le urla soffocate di Andy: per un istante, temo di averli persi, di averli sorpassati senza accorgermene, ma poi li vedo, quasi davanti a me. L’uomo si sta muovendo su e giù sopra Andy, il suo fondoschiena risalta grande e bianco contro il verde delle felci; ha ancora lo zaino in spalla e questo è bizzarro, spaventoso e ridicolo al contempo. Preme una mano sulla faccia di Andy; mi volta la schiena, ma un ciuffo di capelli rossi gli è caduto su un orecchio. Porto il ramo al di sopra della spalla destra, sempre tenendolo con le due mani, corro verso di loro, supero con un salto un cespuglio basso e atterro di fianco all’uomo, abbassando contemporaneamente il ramo. Lo colpisco con forza, avverto uno schianto sordo e cupo, mentre la testa gli si piega di lato. L’uomo grugnisce, fa per alzarsi; poi crolla a terra. Gli vado sopra.

Andy sta ansimando, cerca di riprendere fiato. Riesce a tirarsi fuori da sotto l’uomo, ha un po’ di sangue sul sedere. Allontana da sé l’uomo, che cade di lato e poi rotola in avanti finendo, con un lamento, a faccia in giù.

Andy fa un respiro profondo, mi fissa; poi si tira su i calzoni, allunga una mano e mi strappa via il ramo. Lo solleva sopra la testa e lo cala con forza sulla nuca dell’uomo, una volta, due, tre.

«Andy!» urlo. Lui solleva il ramo, quindi lo lascia ricadere a terra. Rimane lì, fremente, si stringe nelle braccia, premendo il mento contro il petto; la testa e il corpo sono scossi da un tremito incontrollabile. Fissa l’uomo: dalla nuca, sotto i capelli rossi, sta uscendo del sangue.

«Andy?» Tendo una mano per toccarlo, ma lui si ritrae.

Ci alziamo entrambi e, immobili, osserviamo la macchia di sangue che si allarga.

«Credo che sia morto», sussurra Andy.

Tremando, allungo una mano e lo rivolto sulla schiena. Ha gli occhi mezzi aperti, ma non sembra che respiri. Gli afferro un polso e lo stringo per un po’, cercando di sentire il battito.

«Che cosa facciamo?» chiedo, lasciando andare il corpo inerte, che rotola nuovamente a pancia in giù. Il sole getta chiazze di luce sull’erba e sulle felci intorno a noi. Gli uccelli cinguettano dai rami sopra le nostre teste e in lontananza sento il rumore del traffico sulla strada.

Andy non risponde.

«Sarà meglio che lo diciamo a qualcuno, non credi, Andy? Sarà meglio dirlo a qualcuno, eh? Sarà meglio dirlo… alla tua mamma e al tuo papà. Dovremo dirlo alla polizia, anche se lui è… anche se era… Insomma è stata legittima difesa, è così che la chiamano, legittima difesa. Lui… stava cercando di ucciderci, di ucciderti; è stata legittima difesa, possiamo dirlo, la gente ci crederà, è stata legittima difesa…» Andy si volta verso di me. E pallido e teso. «Chiudi la bocca!»

Chiudo la bocca. Ma non riesco a smettere di tremare.

«E allora, che facciamo?» dico con un gemito.

«Lo so io», risponde Andy.

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