Crollarono entrambi pesantemente sull’impiantito, separandosi per un momento. Junior tentò di tenersi aggrappato al suo avversario, ma il dolore al braccio e alla spalla erano troppo intensi. Dalla frattura cranica il sangue sgorgava copiosamente, aumentando la pressione al cervello e provocando un rapido deterioramento delle capacità motorie. Junior si sforzò di rialzarsi da terra, ma il suo aggressore fu più svelto. Rotolò su un fianco, raccolse un paletto di legno e colpì ripetutamente Junior alla testa, intensificando sempre più selvaggiamente i colpi e la forza degli stessi. Il pezzo di legno si scheggiò, rivelando dei vecchi chiodi, e alla fine si spezzò a metà. Junior gemette, cadde a terra, rotolò e non si rialzò più. Con il torace ansimante e l’estesa emorragia per le ferite multiple alla testa, rimase semplicemente disteso, a occhi chiusi.
L’uomo incappucciato gli si avvicinò con circospezione, sospettando un altro trucco. Imprecò dapprima contro Junior e poi contro se stesso per aver sottovalutato la sua vittima. Era sicuro che un violento colpo di taglio con la pala sulla nuca avrebbe atterrato l’uomo. Si calmò, si schiarì le idee, si disse che doveva finire l’opera. Perciò avanti.
Ansimando a sua volta affannosamente, con la gola asciutta e l’acido lattico nei muscoli che lo intontiva, si inginocchiò accanto a Junior e tirò fuori da una tasca del cappotto il pezzo di corda e il cavicchio di legno che aveva preparato. Infilò il cappio di corda sulla testa di Junior, lo strinse intorno al collo massiccio della sua vittima e cominciò a girare lentamente il cavicchio di legno finché non sentì Junior gorgogliare, annaspando in cerca d’ossigeno. Continuò a girare, mantenendo una pressione costante. Pochi minuti dopo l’enorme torace si sollevò un’ultima volta e poi si fermò.
L’uomo mollò il cavicchio di legno e si sedette sui talloni. Si massaggiò la spalla nel punto in cui l’urto violento con Junior e il mucchio di piccole travi di legno gli avevano fatto un male boia. Poteva sopportarlo. La cosa di gran lunga più problematica era che la colluttazione aveva seminato in giro delle potenziali prove. Ricorrendo al generatore di corrente e alla lampada di Junior, l’incappucciato si esaminò con metodo. Era imbrattato da capo a piedi di sangue, vomito e muco della sua vittima. Fortunatamente non aveva perso il cappuccio, i guanti e i bracciali lunghi di protezione, poiché anche solo un pelo delle braccia o un capello strappato poteva diventare un vero incubo per lui, fornendo il suo DNA.
Perlustrò accuratamente il locale e poi l’uomo morto in cerca di qualsiasi particolare in grado di tradirlo agli occhi dei colleghi di Sylvia Diaz. Impiegò parecchio tempo a ripulire le unghie di Junior per eliminare qualsiasi particella umana rivelatrice che potesse essere finita là sotto. Alla fine, convinto di non aver lasciato in giro tracce significative, estrasse dall’altra tasca del cappotto la maschera da clown e la depose accanto al cadavere. Si era un po’ schiacciata nella caduta rovinosa quando Junior lo aveva atterrato, ma anche così era difficile che alla polizia sfuggisse il significato allusivo.
Controllò il polso di Junior per assicurarsi che l’uomo fosse veramente morto, poi restò seduto là per altri cinque minuti e controllò di nuovo. I sottili mutamenti in un corpo umano a morte avvenuta gli erano ben noti, e con sua grande soddisfazione stavano verificandosi tutti. L’uomo era decisamente morto. Si allungò in avanti e sollevò la mano sinistra di Junior. Tirò in fuori il perno della corona dell’orologio e puntò la lancetta delle ore sulle cinque esatte: la stessa ora su cui l’omicida impostore aveva regolato l’orologio di Bobby Battle. Questo avrebbe trasmesso un messaggio chiaro alla polizia e all’impostore. Voleva che entrambi fossero informati. Invece di puntellare l’avambraccio della vittima, mise di nuovo giù la mano morta e poi estrasse un pennarello nero dalla cintura per attrezzi di Junior e disegnò sul pavimento d’assi una freccia che puntava direttamente verso l’orologio. Infine, sfilò dal cinturone di Junior la grossa fibbia di metallo con il marchio NASCAR in rilievo e se la mise in tasca.
Un rumore lo fece trasalire, finché non capì di che cosa si trattava. Il cellulare di Junior stava suonando. Gli era caduto di tasca durante la colluttazione. L’uomo col cappuccio osservò il display: la telefonata proveniva da casa Deaver. Potevano chiamare finché volevano. Junior non sarebbe mai più tornato.
Si alzò sulle gambe un po’ malferme, abbassò lo sguardo sull’uomo con il cappio al collo e poi sulla maschera da clown lì accanto, e la sua bocca si concesse un sorriso. Ancora una volta per giustizia , disse tra sé. Non intendeva sprecare preghiere sulla salma di Junior Deaver. Con la punta del piede spense il generatore elettrico a batteria e la zona restò di colpo al buio; il morto scomparve come per magia.
Un altro rumore lo spaventò a morte.
Era quello di un’auto che si stava avvicinando. L’incappucciato si precipitò verso lo spazio vuoto di una delle finestre ritagliate nella facciata della casa. Una coppia di fari stava fendendo l’oscurità, venendo dritto verso di lui.
King e Michelle scesero dalla Lexus e si guardarono in giro. Avevano cambiato vettura alla casa galleggiante di King perché uno dei fari del fuoristrada di Michelle si era bruciato. King estrasse di tasca una piccola torcia elettrica, ma il sottile fascio di luce serviva a poco nel buio fitto.
«Il suo camioncino è qui» disse Michelle battendo la mano sulla fiancata dello scalcinato pickup con il cassone carico di attrezzi e materiale edile.
«Junior!» gridò l’investigatore. «Sono Sean King. Vogliamo parlare con te.»
Michelle giunse le mani a coppa intorno alla bocca. «Junior! Signor Deaver!»
Si scambiarono un’occhiata.
«Forse è dentro la casa.»
«A far cosa, lavorare al buio?» disse King.
«Magari nello scantinato, e non riusciamo a vedere la luce da qui.»
«D’accordo, allora mi sa che dobbiamo andare dentro.»
«Hai un’altra pila in macchina?»
«No, ma forse Junior ne ha una sul camioncino.»
Si misero a cercare e ne trovarono una sul pavimento. Due fasci di luce gemelli avanzarono nel buio.
Entrarono dalla porta anteriore e si guardarono intorno.
«Junior» chiamò di nuovo King ad alta voce.
Perlustrarono il locale con i fasci di luce delle pile. Nell’angolo più lontano una grande incerata copriva quello che sembrava un grosso mucchio di calcina. Sparsi tutt’intorno c’erano secchi, attrezzi, sacchi di cemento, cataste di legname e altro materiale da costruzione. Un vero caos.
«Ehi, sembra di stare a casa tua» commentò King.
«Ragazzi! Sei proprio in forma oggi! Guarda, i gradini che scendono nello scantinato sono qui.»
In cima alle scale, Michelle gridò di sotto. Non ci fu nessuna risposta.
«Pensi che si sia fatto male?» domandò.
King si guardò intorno. «La cosa comincia a farsi parecchio strana» disse con calma. «Perché non…»
Michelle aveva già estratto la pistola. Cominciarono a scendere le scale con circospezione. Nell’angolo più lontano dello scantinato c’era una catasta di bidoni. Vi guardarono dietro. Niente. La caldaia era in un altro angolo dello scantinato. Sciabolarono i fasci di luce sulla massa di tubi e lamiera, ma di nuovo non videro nulla.
Dietro una delle grosse condutture dell’impianto di riscaldamento, in uno spazio non sfiorato dai fasci di luce, l’uomo con il cappuccio li teneva d’occhio mentre risalivano le scale. Lentamente, scivolò fuori dal suo nascondiglio.
Di sopra, King e Michelle si guardarono intorno con maggiore attenzione. Fu Michelle a notarlo per prima.
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