David Baldacci
Il gioco di Zodiac
Questo romanzo è dedicato
a Harry L. Carrico,
Jane Giles
e alla memoria di Mary Rose Tatum.
Tre delle persone migliori che io abbia mai conosciuto.
L’uomo con l’impermeabile camminava un po’ curvo e ondeggiante, con il respiro affannoso, madido di sudore da capo a piedi. Il peso che stava portando in spalla, sebbene non eccessivo, lo affaticava, e il terreno era dissestato. Non era mai facile trasportare un cadavere nei boschi in piena notte. L’uomo spostò il corpo dalla spalla destra alla sinistra e proseguì arrancando. Le suole delle sue scarpe non recavano marchi distintivi; non che avesse importanza, dopotutto, visto che la pioggia battente dilavava qualsiasi traccia di impronte. Aveva controllato le previsioni meteorologiche: era la pioggia il motivo per cui si trovava lì. Il maltempo era il migliore alleato che potesse augurarsi.
A parte la salma appoggiata sulla sua spalla robusta, l’uomo si faceva notare anche per il cappuccio nero che indossava, sopra il quale era cucito a tutta altezza un emblema esoterico. Un cerchio, con due linee disposte a croce. Probabilmente riconoscibile da chiunque fosse oltre i cinquanta, in passato il marchio aveva ispirato un terrore che ormai il tempo aveva sensibilmente attenuato. Che nessuno lo vedesse con quel cappuccio indosso non aveva la benché minima importanza; l’uomo traeva semplicemente una macabra soddisfazione dal suo simbolismo letale.
Nel giro di dieci minuti raggiunse il luogo scelto con attenzione durante un precedente giro di ricognizione, e depose il corpo per terra con una cura che smentiva la violenta modalità con cui era avvenuto il delitto. Inspirò profondamente e trattenne il fiato mentre svolgeva il cavo telefonico avvolto intorno all’ingombrante fagotto e apriva il telo di plastica. La donna era giovane, con lineamenti che erano stati attraenti fino a due giorni prima; in quel momento invece non era certo un bello spettacolo. I morbidi capelli biondi le ricaddero dall’incarnato cinereo del viso, rivelando due occhi chiusi e due guance gonfie in modo innaturale. Fossero stati aperti, gli occhi avrebbero potuto ancora avere lo sguardo terrorizzato della vittima nel momento in cui aveva subito il proprio omicidio, fatto che in America si ripeteva all’incirca trentamila volte all’anno.
L’uomo svolse completamente il corpo dal telo di plastica e adagiò la donna in posizione supina. Poi espirò a fondo, reprimendo il conato di vomito provocato dal fetore del cadavere, e inspirò di nuovo a denti stretti fino a riempirsi i polmoni d’aria fresca. Con una mano inguantata e la torcia elettrica cercò e trovò il rametto biforcuto che aveva nascosto in precedenza tra i rovi vicini. Lo utilizzò per sostenere l’avambraccio della donna, da lui posizionato in modo che puntasse verso il cielo. Il rigor mortis della salma, sebbene in rapida attenuazione, aveva reso difficoltoso il compito, ma l’uomo era forte e alla fine aveva fatto leva sull’arto irrigidito, piegandolo nel modo desiderato. Estrasse di tasca l’orologio, ne verificò il quadrante con la torcia elettrica per accertarsi che fosse regolato correttamente e lo allacciò al polso della donna morta.
Lungi dall’essere religioso, si genuflesse comunque accanto al cadavere e mormorò una sorta di breve preghiera, coprendosi con la mano a coppa la bocca e il naso per i pochi secondi di durata del rapido rituale.
«Non sei stata direttamente responsabile, però eri tutto quel che avevo. Non sei morta invano. E sono convinto che in effetti per te sia meglio essere morta.» Credeva davvero a quello che aveva appena affermato? Forse no. Forse non aveva nessuna importanza.
Fissò il volto della morta, studiando scrupolosamente le sue fattezze con la concentrazione di uno scienziato di fronte a un esperimento particolarmente affascinante. Prima di allora non aveva mai ucciso. Lo aveva fatto in fretta e, sperava, senza infliggere dolore e sofferenza. Nella notte grigia e piovosa la morta sembrava circondata da un tenue bagliore giallastro, come se si fosse già trasformata in uno spirito.
Si ritrasse di qualche passo ed esaminò l’area circostante, controllando che nessun particolare potesse costituire una prova a suo carico. Scoprì solo un minuscolo batuffolo di fili di stoffa del suo cappuccio che si era impigliato in un cespuglio vicino al punto in cui giaceva il cadavere. Non puoi permetterti nessuna negligenza. Se lo mise in tasca. Dedicò ancora diversi minuti alla ricerca di altri particolari, anche microscopici.
Nell’ambiente dell’indagine criminale erano proprio quelle “quisquilie apparentemente invisibili” da patologia legale a incastrare il colpevole. Una sola goccia di sangue, di sperma o di saliva, una solitaria impronta digitale, per quanto sbavata, un singolo follicolo pilifero attaccato a un briciolo di radice rivelatrice del DNA e ti ritrovavi con un tenente di polizia che ti leggeva i tuoi diritti, quattro agenti di custodia e un paio di avvocati dell’accusa che si aggiravano intorno a te come lupi famelici. Purtroppo, anche una piena consapevolezza di quel rischio reale offriva ben poca protezione. Qualsiasi criminale, a prescindere dal suo grado di scrupolosa vigilanza, lasciava sempre sul luogo del delitto una traccia potenzialmente incriminante. Perciò lui aveva riposto la massima attenzione nell’evitare di avere un qualsiasi contatto fisico con la sua vittima, come se la donna fosse stata un virus infettivo in grado di diffondere un morbo letale.
Arrotolò il telo di plastica e ripose in tasca il cavo del telefono, controllò ancora un volta l’orologio al polso della vittima e poi tornò lentamente verso l’automobile.
Dietro di lui giaceva la donna morta, con l’avambraccio alzato, la mano puntata in alto a indicare le cateratte del cielo. L’orologio da polso era leggermente luminescente nell’oscurità e faceva da fioco segnale indicatore del suo nuovo luogo di riposo. Non sarebbe rimasta sola a lungo: qualcuno l’avrebbe ben presto trovata casualmente. I cadaveri insepolti di rado non vengono scoperti, persino nei posti più isolati.
Mentre si allontanava in auto, l’incappucciato tracciò nell’aria con l’indice il simbolo riportato sul suo cappuccio, facendosi poi il segno della croce con la mano. Lo stesso simbolo a rette incrociate appariva sul quadrante dell’orologio allacciato al polso della donna morta. Questo dovrebbe certamente dar loro uno spunto. Emise un sospiro di eccitazione mista a terrore. Per anni aveva creduto che quel giorno non sarebbe mai giunto. Per anni gli era mancato il coraggio. Ora che aveva mosso i primi passi, provava un grande senso di potere e di liberazione.
Passò dalla seconda alla terza e accelerò; i pneumatici morsero l’asfalto bagnato e sdrucciolevole e fecero presa mentre le tenebre inghiottivano le luci di posizione della sua Volkswagen azzurra. Voleva arrivare a destinazione il più presto possibile.
Doveva scrivere una lettera.
Michelle Maxwell allungò il passo. Aveva completato il tratto pianeggiante del suo consueto percorso di jogging tra le colline circostanti Wrightsburg, a sudovest di Charlottesville, in Virginia. Da quel punto in poi il terreno si sarebbe fatto gradualmente più ripido e impervio. Alta un metro e settantacinque, Michelle era una ex vogatrice olimpionica che dopo gli allori sportivi aveva trascorso nove anni di intenso lavoro nel Servizio segreto. Di conseguenza aveva una notevole forma fisica. Purtroppo, però, un vasto sistema di alta pressione si era stanziato su tutto il medio Atlantico, rendendo insolitamente umida quella giornata di primavera, e i suoi muscoli e i polmoni da ex campionessa cominciarono a darle qualche problema di affaticamento quando affrontò di petto la prima salita. A un quarto del suo percorso di allenamento aveva raccolto i lunghi capelli neri in una coda di cavallo, ma qualche ciocca ribelle le ricadeva sul viso.
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