Un paio di minuti dedicati a forzare la serratura ed entrò in casa, guardandosi intorno. Il cottage era un disastro; l’uomo si meravigliò della capacità della donna di operare in mezzo a quel caos. Nascose il dispositivo dietro una pila di libri e CD messi a raccogliere polvere in un angolo del soggiorno. Era un trasmettitore FM della dimensione di una moneta, al quale aveva saldato un microfono, operazione illegale secondo le leggi federali americane perché trasformava il trasmettitore in una microspia di sorveglianza. Non che gliene fregasse qualcosa di violare la legge o la privacy. Si affrettò a salire le scale per andare nella camera da letto di Michelle, dove esaminò il suo guardaroba e trovò diversi pantaloni neri, due camicie bianche, tre paia di décolleté eleganti e poi jeans, felpe, tute in abbondanza, oltre a una grande varietà di scarpe sportive.
Tornò a pianoterra. La donna non disponeva di una vera e propria zona ufficio; comunque passò in rassegna la posta del giorno sparsa sul tavolo della cucina. Non c’era nulla di insolito, ammesso di considerare normale degli abbonamenti a “Shooting Magazine” e “Iron Women”.
Sgattaiolò fuori di casa; aveva un’ultima cosa importante da fare. Siccome stava nascondendo quelle “cimici” in località diverse, non avrebbe potuto controllarle tutte insieme nello stesso tempo. Perciò aveva apportato una modifica al trasmettitore per collegarlo senza alcun cavo a un microregistratore digitale ad attivazione vocale che ora stava per nascondere fuori dal cottage di Michelle. Il trasmettitore aveva un raggio d’azione di un centinaio di metri all’interno di un edificio, e il registratore digitale era dotato di un hard disk capace di tenere in memoria centinaia di ore di registrazione. Tornò dentro casa, provò a parlare e poi corse di nuovo fuori per verificare il funzionamento del microregistratore. La sua finta conversazione era stata rilevata e registrata. Soddisfatto, si allontanò in fretta. Aveva già piazzato delle microspie nella casa galleggiante di King due giorni prima, come pure nell’ufficio dei due investigatori privati, e messo sotto controllo i loro telefoni fissi. Aveva scoperto in fretta che il capo Williams si stava servendo di King e Maxwell nell’indagine, e aveva capito che gli sarebbero stati molto utili. Così adesso almeno due delle persone che lo stavano cercando gli avrebbero fornito involontariamente informazioni di prima mano. Come King aveva previsto, aveva davvero seguito i telegiornali. Era perfettamente consapevole che un esercito di uomini era stato radunato per catturarlo. Be’, sarebbe morto prima. E avrebbe portato con sé più gente possibile.
Più tardi, quella stessa sera, Kyle Montgomery, l’assistente di Sylvia nonché rock star mancata, parcheggiò la sua Jeep davanti all’obitorio e scese. Indossava un giaccone sportivo nero con il cappuccio e la scritta UVA — University of Virginia — sulla schiena, un vecchio paio di jeans a salopette consunti e scarponi da escursionista senza calze. Notò che anche l’Audi decappottabile blue-navy di Sylvia era parcheggiata davanti. Controllò l’orologio. Erano quasi le dieci. Un po’ tardi perché la dottoressa fosse ancora lì, ma c’era l’ultima vittima da dissezionare: l’avvocatessa, rammentò. La sua datrice di lavoro non aveva richiesto il suo aiuto per quell’autopsia, una decisione che aveva apprezzato molto. Tuttavia, la presenza di Sylvia quella sera rendeva un po’ più rischioso quello che era venuto a fare, perché non sapeva in quale preciso locale si trovasse la donna. Probabilmente nell’obitorio, però se fosse stata nello studio medico, e l’avesse scoperto, poteva sempre inventarsi una scusa. Inserì la tessera magnetica di sicurezza nell’apposita fessura sulla porta anteriore, udì la serratura automatica aprirsi a scatto ed entrò nello studio medico di Sylvia.
Erano accese solo le luci d’emergenza. Kyle andò dritto per la sua strada in quell’ambiente a lui familiare, fermandosi solo quando passò davanti all’ufficio di Sylvia. La luce era accesa, ma all’interno non c’era nessuno.
Entrò di soppiatto nella zona dell’ufficio adibita a farmacia, usò la sua chiave per aprire uno degli armadietti ed estrasse diversi flaconcini. Prese una pastiglietta da ognuno di essi, premunendosi di porre ciascuna in un apposito sacchettino di cellophane trasparente con etichetta sulla quale aveva precedentemente indicato il contenuto con un pennarello nero Magic Marker. Più tardi avrebbe violato come un abile hacker il sistema computerizzato e avrebbe alterato i numeri di inventario per mascherare il furto. Kyle sottraeva poche pillole alla volta, perciò gli risultava facile coprire le proprie tracce.
Stava per andarsene quando si ricordò che quella mattina aveva dimenticato il portafoglio nel suo armadietto all’obitorio. Ripose le pillole nello zainetto e aprì adagio la porta tra i due uffici. Se si fosse imbattuto in Sylvia, avrebbe potuto dirle semplicemente la verità, cioè che aveva dimenticato il portafoglio nell’armadietto. Uscì dallo studio di Sylvia antistante l’obitorio. Era vuoto. Andò nella sala di disinfezione. La stanza per le autopsie era in fondo al locale, nella parte posteriore dell’edificio; era là che Sylvia si stava occupando della sua silenziosa compagna. Non aveva nessuna intenzione di procedere oltre. Tese l’orecchio per qualche secondo, sforzandosi di udire il ronzio della sega chirurgica Stryker, lo scorrere dell’acqua nel lavello, o degli strumenti sterilizzati che battevano contro il metallo, ma c’era soltanto silenzio. La cosa era un pochino snervante, sebbene molto di ciò che avviene durante un’autopsia richieda una quiete simile. Dopotutto la morta non si sarebbe di certo lamentata di tutto quel tagliare e incidere.
In quello stesso istante risuonò un rumore distinto, o così gli sembrò, dal locale in fondo. La sua datrice di lavoro probabilmente si stava muovendo. Kyle prese rapidamente il portafoglio dall’armadietto e si ritrasse nell’ombra. All’improvviso gli era venuta la paura che se lei lo avesse scoperto là dentro avrebbe potuto cominciare a fargli domande imbarazzanti. Sylvia era capacissima di farlo, senza tanti preamboli. E se gli avesse chiesto di aprire lo zainetto? Arretrò ulteriormente in una nicchia della parete, con il cuore che gli batteva nelle orecchie. Imprecò in silenzio contro la propria mancanza di sangue freddo. Trascorsero alcuni minuti. Finalmente trovò il coraggio di avanzare di nuovo alla luce. Trenta secondi dopo era fuori dall’edificio e si stava allontanando sul suo fuoristrada lungo la via, con gli stupefacenti al sicuro nel suo zainetto.
Quando arrivò a destinazione, il parcheggio era pieno. Incuneò a fatica la sua Jeep tra un paio di ingombranti SUV ed entrò.
L’Aphrodisiac pulsava di vita e di attività: praticamente ogni tavolo, sedia o sgabello del bar erano occupati. Kyle mostrò la sua tessera del club a un buttafuori dall’aria assonnata all’entrata della sala in cui c’erano le ballerine e passò alcuni minuti ad ammirarle. Le formose donne seminude, aggrappate alle sbarre di metallo da lap dance, stavano eseguendo gesti talmente volgari che avrebbero causato alle loro povere madri una rapida morte per umiliazione… probabilmente però solo dopo aver strozzato le loro svergognate figlie. Kyle si godette ogni secondo di quello spettacolo.
Controllò l’orologio e poi salì le scale fino al primo piano, percorrendo infine un corridoio a metà del quale una spessa tenda rossa fungeva da delimitazione dell’ala riservata ai dipendenti del locale. Oltre la tenda rossa si apriva un labirinto di piccole stanze. Si fermò davanti alla prima porta, bussò nel modo concordato e ricevette immediatamente il permesso di entrare.
Si richiuse la porta alle spalle e restò nervosamente in piedi, riluttante ad avanzare nella penombra. Non era la prima volta che faceva una consegna del genere in quel locale, ma ciò comportava sempre una nuova dose di rischio e di incertezza.
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