«Mi dispiace» dissi dopo un momento.
Lui annuì:
«Vogliamo entrare?».
«Sì, grazie.»
«Non deve ringraziarmi, Herr Lime. O Leica. Pochi tra quelli che varcano questa porta escono soddisfatti. Anzi, è vero il contrario.»
Seguii Herr Weber in un locale dal soffitto alto, con le pareti giallo-pallido e un logoro pavimento di linoleum. File di tavoli quadrati, molti dei quali occupati, percorrevano la lunghezza della stanza. Weber mi indicò un tavolo libero e vi posò una cartellina di cartoncino rosa. La scena ricordava l’esame di maturità: le schiere di schiene curve su pile di fotocopie, l’atmosfera di assoluto silenzio e concentrazione, i banchi sistemati in modo da garantire che nessuno potesse spiare il compagno. La pallida luce novembrina entrava dalle finestre, mescolandosi a quella dei tubi al neon. Dalle gocce che solcavano le finestre capii che aveva ricominciato a piovere.
Sulla cartellina c’era scritto: OPK-Akte. MfS. XX, 1347/76-81. HVA/1249. Subito sotto, qualcuno, a mano, aveva aggiunto il nome «Leica». Cercai di decifrare quel codice: MfS stava per Ministero per la sicurezza dello stato, la STASI. HVA, Hauptverwaltung Aufklärung , letteralmente significava Ufficio Centrale Informazioni. Ma informazioni su cosa e da parte di chi? Sapevo che Markus Wolf ne era stato direttore, e che l’HVA era circondato da un alone meno sinistro della STASI, benché facesse parte a pieno titolo dell’apparato della polizia segreta. Dedussi che i numeri 76-81 indicassero gli anni durante i quali erano state raccolte le informazioni che stavo per leggere, le altre cifre dovevano semplicemente essere parte della chiave numerica del sistema di catalogazione.
Aprii la cartellina e vidi una mia foto di quando ero giovane. Ero a un raduno politico, in Spagna. Dopo un esame più attento dello sfondo, giudicai che l’immagine dovesse essere stata scattata a Valladolid, davanti alla vecchia arena. Era la foto di un non professionista, scattata con una macchina da pochi soldi. Davanti all’ingresso dell’arena sventolavano le bandiere rosse. Avevo circa vent’anni, una gran zazzera mi incorniciava la faccia come una cascata, la Nikon e la fida Leica a tracolla. L’espressione era un po’ arrogante.
Posai la foto. Improvvisamente era tutto chiaro. Ma mi costrinsi a volgere la mia attenzione alle fotocopie che Herr Weber aveva fatto dei rapporti originali, vecchi e sicuramente ingialliti. Erano indirizzati a un certo tenente colonnello Schadenfelt, capo del II/9, che evidentemente aveva l’incarico di contrastare i servizi segreti occidentali mediante l’infiltrazione e il reclutamento di agenti. C’era una mia descrizione preliminare, che indicava quando ero nato, il mio background familiare, la mia professione. Veniva sottolineata la mia vocazione a una vita nomade, il mio orientamento politico progressista, e si specificava che non ero iscritto ad alcun partito.
Mi veniva riconosciuto il potenziale di diventare un informatore, forse addirittura un agente in piena regola. Naturalmente previa l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dell’importanza della lotta all’imperialismo e al militarismo di marca americana. Erano citate le parole di condanna che avevo espresso nei riguardi della guerra del Vietnam. E l’occasione in cui, trovandomi per lavoro sul luogo di un’euforica manifestazione del partito comunista spagnolo, avevo dichiarato che se fossi stato spagnolo, sarei senz’altro diventato comunista. Erano riportati anche dettagli apparentemente superflui: come mi vestivo di preferenza, gli autori che leggevo — Hemingway e il danese Rifbjerg — i nomi e le professioni delle donne che frequentavo, i miei incarichi di lavoro. Venivano segnalati i cambi di indirizzo e i frequenti viaggi. Ogni pagina era contrassegnata da numeri, cifre, nomi in codice e rimandi. Erano riportati incontri e conversazioni, viaggi e articoli, atteggiamenti e opinioni. Il mio relatore riferiva che da colleghi eravamo diventati amici. Parlava del mio alcolismo e delle mie difficoltà nell’instaurare rapporti stabili con l’altro sesso.
Seguivano altre valutazioni circa le mie opinioni politiche, giudicate progressivamente sempre più deludenti. Non si riscontravano progressi nel mio processo di presa di coscienza della necessità della lotta di classe. Nel 1981 il mio relatore giungeva alla conclusione di aver sopravvalutato il mio potenziale rivoluzionario. Non solo mi dimostravo sensibile alla propaganda e alle seduzioni dello stile di vita borghese, ma guardavo con sospetto ai risultati raggiunti dai paesi socialisti sotto la guida dell’Unione Sovietica. Con il passare degli anni quel sospetto si era trasformato in un atteggiamento di aperta critica nei confronti del socialismo reale.
Sempre nell’81 la mia posizione in merito alla controrivoluzione polacca e la mia ammirazione per il movimento di Solidarnosc, finanziato dalla CIA, mi avevano definitivamente squalificato dalla lista delle potenziali reclute. Il relatore consigliava che, qualora avessi avanzato richiesta di un visto d’ingresso per la Polonia, il visto mi fosse negato.
Caso chiuso. Archiviato. Il mio era un dossier scarno, assolutamente inutile, che solo un sistema paranoico poteva decidere di conservare. Avrei potuto uscire di lì e scordarmene per sempre, se non fosse stato per un dettaglio.
Il mio relatore non poteva che essere Oscar. Naturalmente il nome con cui lo conoscevo io nei documenti non compariva. Quando Oscar scriveva al tenente colonnello Helmut Schadenfelt, si firmava Karl Heinrich Müller. Prima tenente, poi capitano, e infine maggiore dell’HVA, agli ordini diretti di Schadenfelt e Misha Wolf.
Guardando con attenzione la foto, l’avevo collegata al primo viaggio di lavoro intrapreso con Oscar: il raduno di massa dei comunisti nell’arena di Valladolid, dove doveva parlare Carrillo. In quell’occasione gli avevo fatto da interprete, e lì era nata quella che avevo sempre ritenuto essere una vera amicizia.
Da vent’anni lo consideravo il mio migliore amico, e per tutto quel tempo lui aveva giocato a carte coperte.
Oscar. Karl Heinrich Müller. Amelia. Maria Luisa. La foto di una giovane donna insieme a dei terroristi tedeschi nel soggiorno di una comune danese. I miei pensieri giravano in tondo, a un ritmo vorticoso, ossessivamente. A un tratto fui colto da una nausea terribile, mi alzai, trovai un bagno e vomitai tutto ciò che avevo in corpo. Mi buttai dell’acqua in faccia e mi sedetti su uno dei gabinetti a fumare una sigaretta. Poi tornai alla reception e chiesi di Herr Weber. Dopo un quarto d’ora arrivò con la borsa in una mano e diverse cartelline sotto l’altro braccio.
«Herr Lime. In cosa posso esserle utile?»
«Posso avere il dossier di Karl Heinrich Müller?»
Herr Weber mi guardò con i suoi occhi vivaci:
«Mi sembra un po’ pallido, Herr Lime. Ha bisogno di un medico?».
«No, di un drink. E del dossier di Karl Heinrich Müller.»
«Per il drink non posso aiutarla, adesso torni dentro, si sieda, intanto vedrò quel che posso fare a proposito di Karl Heinrich.»
Tornai al tavolo e aspettai, cercando invano di controllare il tremito delle mie mani. Una donna seduta poco lontano piangeva sommessamente.
Herr Weber riapparve dopo un quarto d’ora, posò un foglio di carta e una fotografia sul mio tavolo.
«Grazie. È stato veloce» dissi.
«Non c’è molto. Il suo dossier è andato quasi integralmente distrutto quando hanno cercato di far sparire le prove. Stiamo provando a restaurare una parte dei documenti, ma si tratta di un processo che richiederà anni. Forse l’eternità.»
«Capisco.»
Herr Weber esitò:
«Altri in situazioni simili alla sua hanno rintracciato un ufficiale superiore. Alcuni sono disposti a parlare, altri no».
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