Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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Si girò a guardarmi, e la baciai sulle labbra morbide, pensando che ero felice.

Il tassista si fermò in Rischerstrasse, ai margini del grande complesso e aspettò mentre Clara mi dava istruzioni. In realtà quella sembrava una strada qualsiasi di un qualsiasi quartiere di Berlino Est: grandi cartelli pubblicitari della Sony e di Ritter Sport, un supermercato, e pedoni che passavano di fretta senza curarsi più di tanto di quegli edifici lugubri.

«Devi parlare con un certo Herr Weber» disse Clara.

«Tu non vieni?»

«No. Farò una passeggiata. Oppure tornerò in albergo a leggere un po’. Com’è il tuo tedesco?»

«Me la cavo» risposi. «Dai, accompagnami.»

Mi mise una mano sul collo e mi diede un bacio frettoloso:

«Sei tu che hai l’autorizzazione. Il dossier è tuo. Prenditi tutto il tempo che ti occorre. E adesso, fuori!».

Scesi e seguii con lo sguardo il taxi che si allontanava. Senza voltarsi, Clara si limitò ad alzare la mano a mo’ di saluto.

Entrai nella Haus numero 7, e a una piccola reception chiesi di Herr Weber. Il pavimento e l’illuminazione sembravano rifatti, ma c’era ancora l’odore del vecchio regime.

L’ex sede della STASI adesso ospitava diversi uffici dell’amministrazione occidentale. Ma sapevo che un settore del grande complesso era stato trasformato in un museo. Lì, tra bandiere rosse, busti di Lenin e medaglie, si poteva visitare l’ufficio di Mielke, con i numerosi telefoni — tratto distintivo dei regimi comunisti — schierati sulla scrivania scintillante. C’erano telefoni per colloqui riservati, telefoni per colloqui segreti, telefoni per colloqui di massima segretezza. Linee dirette con l’esercito, il Politbjuro, e il KGB. Mentre aspettavo immaginai i lunghi corridoi, le stanze silenziose e polverose, le montagne di documenti: centottanta chilometri di scaffali straripanti di foto, rapporti, trascrizioni di intercettazioni. Nella DDR un cittadino su tre era schedato. Uno su tre era un informatore. I delatori si denunciavano a vicenda, all’infinito. Coniugi, amici, fratelli, sorelle, genitori, colleghi di lavoro: chiunque poteva tradire chiunque altro. Gli archivi della STASI erano un impressionante monumento alla follia dell’uomo; miliardi di parole che potevano significare il carcere o la libertà, parole catturate e trascritte da persone e perciò inaffidabili e soggettive, ma decisive per le vite di altri.

Herr Weber era un uomo piccolo e tarchiato. Sorrise cordialmente quando dissi il mio nome, e vidi che i suoi occhi grigi erano simpatici e pieni di vita.

«Ah, lei è Herr Leica» mi salutò.

«Leica?» dissi io.

«Sì, Signor Lime. Questo è il suo nome in codice negli archivi della STASI. Qui dentro lei si chiama Herr Leica, e sotto questo nome ho esaminato il suo caso. Le dirò che mi sembra quasi di conoscerla, dopo aver letto tutte quelle meticolose relazioni sul suo conto.»

«Lei ha studiato personalmente il mio caso?»

«Si sieda un momento, le comunicherò le regole e le disposizioni vigenti prima di accompagnarla nella sala di lettura.»

Prendemmo posto su due scomode poltrone accanto a un tavolino. Sul tavolo c’era un posacenere: potevo fumare. Mi disse ciò che sicuramente aveva ripetuto centinaia se non migliaia di volte in vita sua, ma il tono della spiegazione era vivace, come se il compito di gestire e trasmettere le annotazioni segrete di una nazione morta fosse troppo importante per rischiare di venirgli a noia.

Herr Weber disse nel suo tedesco lento e chiaro:

«Herr Lime. Noi operiamo ai sensi di una legge che impone certe direttive. Una legge speciale che fu approvata dagli organi competenti della Germania riunita nel 1991. Questa legge regolamenta l’accesso agli archivi. La sua domanda di visionare gli atti è stata evasa e approvata. I suoi documenti sono stati prodotti. Ho letto la sua pratica e, come da regolamento, ho cancellato quei nomi che non la riguardano specificamente. Per evitare di offendere vittime innocenti della STASI. Questi archivi racchiudono grandi tragedie. Ho visto con i miei stessi occhi uomini e donne crollare di fronte al genere di rivelazioni che forse la aspettano. Non è facile scoprire a distanza di anni che colei che credevamo una moglie leale poteva andare a passeggio con la famiglia la domenica e il lunedì fare rapporto al suo ufficiale superiore. Naturalmente potrà vedere tutto ciò che riguarda il suo caso. Può richiedere le fotocopie, ma gli originali restano qui. Mi sono spiegato?».

«Perfettamente» risposi. In realtà tutta quella storia mi sembrava sempre più assurda, e, in un certo senso, molto tedesca. Prima la STASI aveva meticolosamente raccolto e catalogato le informazioni più intime e personali riguardanti milioni di persone, e adesso altri burocrati si davano da fare per catalogare daccapo quella montagna di materiale, attribuendo nuovi numeri di riferimento, cancellando nomi e facendo sbocciare nuovi misteri per ogni segreto che credevano di svelare.

«Bene» riprese Herr Weber. «La sua pratica non è voluminosa, Herr Leica. Si tratta di poche pagine in un unico raccoglitore. Nulla in confronto alle quarantamila pagine che abbiamo sul cantante Wolf Biermann, o agli oltre trecento raccoglitori che lo scrittore Jürgen Fuchs può esaminare. Lei non ha lavorato molto nella defunta DDR. Non si è lasciato assoldare, non ha fatto nomi, e perciò il materiale è piuttosto scarso. Mi dispiace.»

«Le dispiace? Come se avere una pratica voluminosa fosse auspicabile?» ribattei.

Herr Weber fece una risatina.

«Caro signore, l’uomo è una strana creatura. Alcuni si disperano nel leggere ciò che è stato scritto su di loro. Altri, invece, si disperano quando scoprono di essere stati giudicati così scarsamente interessanti da venir liquidati in tre paginette. Nella Germania di oggi c’è chi soffre di una sindrome che io chiamo “invidia d’archivio”. È una malattia della riunificazione.»

Weber studiò la mia espressione perplessa e continuò:

«Per esempio, forse lei spera che nel suo caso siamo in possesso di campioni olfattivi. Purtroppo devo darle una delusione».

«Campioni olfattivi?» Dapprima pensai di aver capito male, ma poi dedussi che facesse tutto parte dell’esibizione che Herr Weber doveva riservare perlomeno agli stranieri. Dalla ventiquattrore estrasse un vasetto di vetro e lo sistemò sul tavolino in mezzo a noi. Era contrassegnato con un numero e sigillato. Sul fondo del vasetto c’era un pezzo di ovatta giallognola. Nient’altro. Presi il contenitore e lo guardai, quindi lo posai fissando con occhi interrogativi Herr Weber.

«Il manuale operativo della STASI parla diffusamente di conserve olfattive. Esistono migliaia di questi vasetti. Sono campioni degli odori delle persone. Ognuno di noi ha un odore diverso, caro signore. E conservando un campione dell’odore di una persona è possibile mettere un cane sulle sue tracce in maniera rapida ed efficiente, nel caso si renda necessario hmm… contattarla…»

Scoppiai a ridere.

«Forse bisogna riderne. Forse, se non fosse stata una tragedia, sarebbe stata una commedia» disse in tono grave.

«Herr Weber, posso prendermi la libertà di chiederle che cosa facesse nella vita prima del crollo del Muro di Berlino?»

Sorrise ironico:

«Certamente. Per diversi anni ho accudito le scimmie al Giardino Zoologico. Prima di allora ero docente di letteratura tedesca, ma dopo una lezione su Goethe e alcune mie dichiarazioni risultate sgradite al Partito, perdetti il lavoro e divenni uno di quegli… esseri, che da questa parte della cortina di ferro chiamavamo “non persone”. Un morto vivente. Anche se le scimmie erano una piacevolissima compagnia».

«E chi fu a tradirla? Uno studente?»

«No, Herr Lime. La mia signora.»

Rimasi senza parole.

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