Nello spogliatoio della palestra mi chinai a togliermi le scarpe e rialzandomi mi trovai di fronte il figlio più piccolo di Suzuki.
«Mio padre ti ha aspettato, Lime-san» disse nel suo ineccepibile spagnolo.
Lo salutai e proseguii il processo di svestizione, fermandomi ad ammirare le sfumature gialle e violacee dei lividi che avevo sul petto e sul fianco.
Feci una doccia, mi avvolsi in un asciugamano e mi distesi sul lettino nella stanzetta più interna dell’edificio. Nella sala grande alcuni allievi si stavano allenando, si udivano tonfi, grida in giapponese e il sibilare dei piedi nudi nell’attacco.
Suzuki entrò avvolto nel suo kimono bianco. Fece un inchino e io mi alzai per ricambiare rispettosamente il saluto. Era piccolo e muscoloso, vicino ai settanta, molto ben portati. I capelli, cortissimi, erano ancora di un nero scintillante.
«Benvenuto, Lime-san» disse. «Distenditi e trova pace nella tua anima. Ho saputo della tua disgrazia e leggo il dolore nei tuoi occhi.»
Mi distesi a pancia in giù, e sentii le sue dita allo stesso tempo forti e delicate iniziare il loro magico viaggio lungo il mio corpo. Stringeva, premeva, massaggiava e accarezzava, dai piedi su fino al collo. Sapeva come snidare il dolore fisico e psichico, che pian piano si concentrava in un unico nodo all’altezza della nuca. Poi, magicamente, sciolse quel nodo lavorandomi il collo con entrambe le mani.
«Hai di nuovo riempito il tuo corpo di veleni, Lime-san» disse. «Hai riempito la tua anima di pensieri negativi. Devi smettere di maltrattarti. Devi ritrovare l’essenza più riposta della tua anima, trovare un nuovo centro.»
Le sue parole erano benefiche quanto i suoi massaggi. Aveva una voce profonda e dal forte accento, rilassante. Quando ero triste, stanco o nervoso Suzuki riusciva infallibilmente a farmi scivolare in un’oscurità piacevole, dove non esistevano dolore né gioia, solo il vuoto. Era meglio delle pillole. E per molti anni era stato meglio dell’alcol. Suzuki mi lasciò dormire per un’ora, poi mi svegliò e mi offrì una tazza di tè forte e molto zuccherato. Domandai come andassero la vita e gli affari. Suzuki era soddisfatto: l’istituto prosperava e da poco gli era nata una splendida nipotina. Mi rivestii e fui accompagnato alla porta, dove ci scambiammo altri inchini. Uscii sentendomi tonificato, temporaneamente riconciliato con la vita. Sapevo che l’effetto non sarebbe durato, ma almeno mi avrebbe aiutato ad affrontare la valigia e i ricordi dolorosi che conteneva.
Trascorsi due giorni e due notti chiuso nella camera d’albergo, con il cellulare spento, a pensare alla mia vita sforzandomi di metterne a fuoco i momenti cruciali. La serenità dell’infanzia al riparo di una famiglia amorevole, la giovinezza inquieta e turbolenta, la maturità. La tragedia.
Ero solo. Potevo ridere, piangere, passeggiare nudo per la stanza, mangiare e bere quando ne avevo voglia. Potevo decidere di non lavarmi. Non era necessario che mi facessi la barba. I rumori della Calle entravano dalla finestra aperta, ma io rovistavo nella valigia e ascoltavo solo me stesso. Tra gli appunti, i vecchi taccuini, i mezzi diari e le foto accumulate in quarant’anni passati con la macchina fotografica in mano, cercavo parole e immagini capaci di evocare piccole, vibranti eco del passato.
Con qualche eccezione, le foto e gli appunti erano sistemati in ordine cronologico. I miei genitori da giovani davanti alla loro prima Volkswagen; mia madre che stendeva il bucato in una limpida giornata invernale; i pescatori a carnevale, truccati da pagliacci, che cercavano di baciare le ragazze. La dodicenne Malene in costume da bagno sulla spiaggia, e, qualche anno più tardi, nuda sulla stessa spiaggia in un giorno pieno di sole. Una foto di Oscar e Gloria, vestiti di bianco e allacciati l’uno all’altra a Pamplona, alla Feria di San Fermín; Gloria con capelli simili a una spuma selvaggia, Oscar con il viso seminascosto da una folta barba da vichingo. Un’immagine del 1971: io in mezzo a uno sguaiato gruppo di colleghi davanti a un ristorante di Kensington. Tutti ridevano e scherzavano atteggiando il viso in buffe smorfie. I capelli erano lunghi o tagliati a caschetto, indossavamo giubbotti di pelle e molti avevano una cicca fra le labbra. Le macchine fotografiche pendevano sui nostri petti come talismani di una tribù esotica. Stavamo aspettando che John Lennon e Yoko Ono uscissero dal ristorante alla moda in cui stavano pranzando.
Poi c’era Amelia davanti alla fontana di Plaza Cibeles a Madrid; il suo bel viso contratto dal dolore durante il parto, la testina nera di Maria Luisa che affiorava tra le sue gambe sudate. Amelia e Maria Luisa nude su una caletta nei pressi di San Sebastián. E la loro ultima foto, quella in cui sedevano su una panchina a spezzettare pane secco per i piccioni.
Tutto questo apparteneva al passato. A un tratto mi sentivo vecchio.
La presenza di Amelia e Maria Luisa, il loro amore, erano stati il mio antidoto contro ogni paura. Ma adesso, con le mie foto in mano, contemplavo i mutamenti, poi il progressivo declino del mio corpo e mi pareva di udire i battiti affaticati del mio cuore. Provai a calcolare quante volte quel muscolo si fosse contratto nel corso dei miei cinquant’anni e fui colto da un senso di vertigine. Per la prima volta in tanti anni la prospettiva della morte mi atterriva.
Misi da parte le foto personali e mi ritrovai in mano l’immagine di Lola, la ragazza con i capelli alla Marianne Faithful, e dell’uomo alle sue spalle.
Clara Hoffmann dei servizi segreti me l’aveva mostrata al tavolino della Cervecería Alemana e da allora la mia vita non era più stata la stessa. Posai la foto sul pavimento, di fronte a me, e continuai a scartabellare. C’era un’altra foto, questa volta a colori, risalente allo stesso periodo. Lola Nielsen nel soggiorno della comune di Bogense, insieme a tre ragazzi barbuti più una donna di cui non ricordavo il nome. Erano seduti attorno a un basso tavolino su cui stavano due grandi posacenere di ceramica e una pipetta da hashish. Sulla parete campeggiava un poster del Che. Poltrone e divano sembravano di quarta mano. Lola aveva la chitarra in braccio, gli uomini la guardavano. I capelli biondi le ricadevano sul viso.
Uno degli uomini era Ernst Strauss, di Berlino Est, arrivato alla comune all’inizio dell’estate insieme a due amici tedeschi. Erano rimasti un paio di mesi.
Rammentavo i loro discorsi sull’impossibilità di un rovesciamento incruento della società capitalista e sulla rivoluzione imminente.
Ernst, ricordai, era nato a Halle. Una volta gli avevo domandato se avesse scavalcato il Muro, ma la sua risposta era stata evasiva.
Molti membri delle comuni danesi condividevano la visione radicale di Ernst e compagni, altri rifiutavano l’uso della violenza. Nell’ambiente le discussioni spesso si facevano accese. Ma sia io che Lola preferivamo restare ai margini del dibattito. A lei interessavano soprattutto le sue conquiste e la carriera di cantautrice, io pensavo alle mie foto, alla donna di turno e a farmi le canne. Conoscevo tutti gli slogan rivoluzionari allora tanto di moda, senza crederci fino in fondo.
Le foto stimolavano il flusso dei ricordi. Ripensai alla raccolta delle fragole, cui tutti partecipavamo per guadagnare qualche soldo. Ci alzavamo verso le quattro di mattina e in bicicletta raggiungevamo il luogo dove un trattore ci aspettava per portarci fino al campo di turno. Mi sembrava di sentire l’odore di terra bagnata, il sapore dolce dei frutti maturi, la brezza salata che si levava dal mare non lontano.
Di colpo mi venne in mente un episodio a cui non avevo più ripensato.
Una mattina mi ero svegliato prima dell’alba per andare nei campi di fragole. Avevo trascorso la notte con Lola, che come al solito aveva preferito restare a dormire. Benché si atteggiasse da femminista, Lola si aspettava che fossero i suoi uomini a badare a lei economicamente e rifuggiva da ogni forma di fatica. Ero appena uscito dalla stanza che occupava all’ultimo piano della comune, quando nella penombra mi parve di vedere qualcuno che si affrettasse giù per le scale. La gente andava e veniva abbastanza liberamente nei locali di quella grande ex fattoria, e spesso capitava di imbattersi in sconosciuti in corridoio o in uno degli spazi comuni.
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