Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Quando il ghiaccio si scioglie: краткое содержание, описание и аннотация

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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La folla cominciava a entrare. Dalla conversazione di due appassionati appresi che uno dei toreri era un giovane e promettente andaluso. I tori, particolarmente grossi e forti venivano dall’allevamento di Miura, vicino a Siviglia.

Raggiunsi il mio posto e sistemai sul cemento il cuscinetto marrone che avevo preso in affitto all’entrata. L’arena si stendeva rossa e cocente sotto il sole del pomeriggio.

Il biglietto di Don Alfonso era di quelli più costosi, avevo un posto in quarta fila nella parte in ombra, proprio sotto il presidente, incaricato di arbitrare la corrida del giorno. Le tribune si riempirono a poco a poco, ma i posti accanto al mio — due sul lato destro e uno a sinistra — erano ancora liberi. Il fumo delle sigarette e il brusio delle voci si levavano verso il cielo azzurro di Madrid, dall’arena saliva l’odore degli animali misto a quello della sabbia e del legno.

Davanti a me quattro uomini discutevano animatamente dei tori; erano degli intenditori, e non avrebbero prestato attenzione a nulla che non riguardasse la corrida. Alle mie spalle sedevano quattro turiste americane, indignate per l’assenza di una sezione non-fumatori nonostante fossimo all’aperto. Tutte e quattro concordavano sul fatto che l’Europa puzzasse terribilmente.

Comprai una Coca e un sacchetto di noccioline da un venditore e mi preparai a godermi lo spettacolo.

Uno squillo di tromba diede il via alla corrida. I tre toreri con le loro cuadrilla sfilarono nell’arena per andare a salutare il presidente. Si fecero il segno della croce, l’orchestra attaccò il paso doble , e quelli si avviarono sulla sabbia per dare inizio all’antichissima partita con la morte.

Il primo toro si precipitò fuori del suo recinto a testa alta. Esitò, momentaneamente sopraffatto dalla folla, dagli odori e dal chiasso. Poi scorse il banderillero, che era uscito da dietro la barriera con la grossa cappa rosso-arancio per permettere al torero di osservare l’avversario e individuare i suoi punti deboli e di forza. Il toro scalpitò, scosse la testa e muggì, e il pubblico si mise a fischiare. Il fatto che il toro marcasse il proprio territorio invece di lanciarsi all’assalto senza indugi era un chiaro segno di vigliaccheria.

Agitando la cappa, l’aiutante fece partire l’animale, allora il matador si fece avanti per dare inizio all’agone. Scosse un paio di volte la cappa, e il grosso animale nero caricò con decisione e prontezza, ma il torero lo fece girare intorno a sé in un paio di bellissime veroniche. Al terzo tentativo il toro cadde sulle zampe anteriori, e un sibilo di delusione serpeggiò fra gli spettatori. Zampe fiacche: il punto debole di molti tori da combattimento spagnoli di oggi. A un segnale dell’orchestra i cavalli entrarono veloci. Sembravano strani animali preistorici con la pancia e i fianchi così coperti da una spessa protezione e il paraocchi. Il picador si sporse verso il toro non appena il torero con un abile movimento del polso ebbe indotto l’animale ad allontanarsi dalla cappa e a pararsi di fronte al cavallo. Il toro caricò immediatamente, la picca gli penetrò nel dorso e il sangue prese a colare copioso. L’animale reagì, spingendo il massiccio cavallo contro la barriera di legno. Fu colpito ancora una volta dalla picca, poi il presidente cedette agli assordanti fischi del pubblico impaziente. Immobile al centro dell’arena, il toro sanguinava e ansimava.

Gli spettatori applaudirono quando il torero salutò personalmente il pubblico con le banderille, le piccole e tozze lance multicolori. Voleva piantarle di persona anziché, come avveniva talvolta, lasciare quel compito a uno degli aiutanti. Corse in linea diagonale verso il toro, che, scorgendolo, a sua volta si mise a correre; per un istante fu come se uomo e animale si fondessero, poi il torero spiccò un balzo e con una breve giravolta conficcò le banderille nel dorso della bestia. Il toro tentò di scrollarsele di dosso, tra gli applausi del pubblico.

Il successivo paio di banderille fu conficcato con la stessa impeccabile eleganza, mentre il terzo cadde quando il toro si abbassò sulle zampe ormai malferme.

Solo e sanguinante in mezzo all’arena, il toro aspettava il suo destino. Il torero bevve un goccio d’acqua, si fece il segno della croce e prese la cappa rossa — la muleta — infilando il suo leggero spadino nel drappo in modo da tenderlo. Sotto la carnagione olivastra, il viso del torero era pallido e i suoi occhi scuri erano pieni di paura, ma salutò con fierezza quando si tolse il copricapo e lo lanciò a una donna un paio di file più in là, dedicandole così il toro. Scattai qualche foto veloce con la Leica. Ero dispiaciuto di non avere un teleobbiettivo. La cosa che più mi sarebbe piaciuto catturare era la nuda paura del suo volto, la qualità del suo sguardo. Erano le prime foto che scattavo dopo la morte di Amelia e Maria Luisa, e avevo alzato la macchina fotografica, messo a fuoco e valutato la luce e la distanza con la mia abituale sicurezza, quasi automaticamente. Era una bella sensazione, accorgermi che tornavo ad agire e reagire al mondo circostante, che ricominciavo a fare ciò che da sempre sapevo e volevo fare: fissare l’istante.

Il torero era meno giovane di quanto mi fosse apparso in un primo momento. Aveva un corpo esile da ragazzo nell’aderente costume rosso-arancio, ma il suo viso era segnato.

Avanzò sulla sabbia per affrontare da solo il toro, la cui furia e scaltrezza, lo sapeva, toccavano il culmine proprio in quel momento. Aveva piantato le banderille da sé per vincere la paura, ma adesso quella stessa paura lo aspettava, centuplicata, al centro dell’arena: adesso veniva il bello. Attirò il toro verso la barriera in modo da trovarsi vicino agli aiutanti in caso qualcosa fosse andato storto. Il toro alzava a scatti il corno sinistro, abbassandosi sulle zampe quando l’uomo cercava di farlo girare dietro alla cappa. Dopo diversi inutili tentativi di indurre l’animale a caricare, il torero impugnò la spada, si mise in posizione e lo uccise. Salutò il pubblico deluso, fece un inchino alla sua donna e al presidente e uscì. Scene da una domenica pomeriggio spagnola come tante. Una volta superata la fascinazione per la morte in sé, i colori dei costumi, la mistica della rappresentazione con il suo elaborato rituale estetico raramente riservavano grandi emozioni.

Dal venditore comprai prima un cognac e poi una birra, che bevvi mentre il secondo toro veniva ucciso senza troppe variazioni. L’animale era più in forma del primo, in compenso il torero si meritò diverse ondate di fischi lasciando che il suo picador rovinasse la bestia costringendola a inginocchiarsi nella faena finale. Presi un altro cognac. Quando risuonò lo squillo di tromba che annunciava il terzo toro, un uomo venne a sedersi nel posto alla mia sinistra. Aveva sottobraccio il supplemento domenicale di «El Pais».

« Buenas tardes , Señor Lime» disse.

« Buenas tardes » risposi.

Era piuttosto basso, portava i capelli neri pettinati all’indietro a scoprire una fronte sfuggente, e un paio di esili baffetti sopra la piccola bocca. Indossava un completo chiaro e una cravatta annodata con cura. Accese un grosso sigaro cubano.

«Si sta godendo la nostra fiesta brava ?» domandò. Aveva una voce aspra e parlava senza quasi muovere labbra, come se temesse che qualcuno potesse leggergliele.

«Non in modo particolare. I tori cascano a pezzi, per dirla senza mezzi termini, e i toreri sembrano più interessati al loro conto in banca che alla loro arte.»

«La stessa severità di giudizio si potrebbe applicare a molti altri aspetti dell’epoca in cui viviamo. La gente ha in mente solo il profitto e nessuno pensa più all’arte o alle tradizioni che sono la vera grandezza della Spagna. Ma questo lei lo sa benissimo. Don Alfonso mi ha detto che lei conosce, comprende e ama il nostro paese.»

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